Famiglia & Minori

Nessuna fatalità: «abbiamo deciso che anziani e disabili potevano morire»

Le persone anziane e con disabilità sono state lasciate morire senza una cura o quantomeno senza una cura adeguata, in ragione del loro essere anziane o disabili. Merlo (Ledha): «Sono persone che dovevano essere curate e non sono state curate. Mentre ci scagliavamo contro le scelte che altri paesi dichiaravano, noi quelle scelte le abbiamo compiute. Le strutture residenziali per persone fragili sono state considerate alla stregua di un deposito di persone “a fine corsa”. Dobbiamo farci i conti, per il “dopo”. Non solo a livello di tribunali, ma come comunità».

di Sara De Carli

«No, non è una fatalità». Il problema non è la morte, o meglio, esistenzialmente lo è. Ma non possiamo chiedere al welfare di sconfiggere la morte. Il problema, dal punto di vista del sistema sociosanitario lombardo, è che una certa fetta di persone, «nello specifico quelle anziane e con disabilità, sono state lasciate morire senza una cura o quantomeno senza una cura adeguata, in ragione del loro essere anziani o disabili». È con questo che dovremo fare i conti. «A centinaia, migliaia, in questo momento ancora non lo sappiamo. Ma sappiamo che mentre ci scagliavamo contro le scelte che altri paesi dichiaravano, noi quelle scelte le abbiamo compiute. Dobbiamo farci i conti, per il “dopo”. Non solo a livello di tribunali, ma come comunità».

Giovanni Merlo è il Direttore di Ledha-Lega per i diritti delle persone con disabilità, un’associazione che rappresenta oltre 180 organizzazioni di persone con disabilità e loro familiari in tutta la Lombardia: il suo approccio è fortemente centrato sulla tutela dei diritti delle persone con disabilità, tanto che il fiore all’occhiello di Ledha è il Centro Antidiscriminazione intitolato a Franco Bomprezzi. Le sue parole sono pesate ma pesanti: hanno molto a che fare con il pondus di questa emergenza. Il 30 marzo Ledha insieme a Forum Terzo Settore Lombardia, Uneba Lombardia e Alleanza Cooperative Italiane-Welfare Lombardia ha inviato una lettera aperta alle istituzioni regionali e nazionali per denunciare la drammatica situazione che stavano (stanno?) vivendo le persone con disabilità e fragilità, soprattutto anziane, ma non solo. L’hanno intitolata “la strage degli innocenti”. Qualche giorno dopo i giornali si sono accorti del numero eccezionale di decessi nelle RSA, ma era tutto già scritto lì. «Abbiamo deciso che i vecchi potevano morire. Le strutture chiamavano ma l’ambulanza non usciva, lo specialista non arrivava, i farmaci nemmeno. Chiedevano DPI e non arrivavano e quando le strutture se li sono procurati, sono stati sequestrati. A queste persone è stato negato l’accesso ai pronto soccorso e agli ospedali, sono state lasciate morire nei loro letti, senza poter avere accesso a tutte le cure a cui sono state invece sottoposte le persone che sono riuscite ad essere ricoverate. Se mettiamo tutto insieme… che vuol dire? Che c’è stato un sistema socio-sanitario che ha deciso che nell’emergenza, dovendo decidere dove indirizzare le risorse, ha scelto di sacrificare una parte di popolazione. Abbiamo la certezza che queste persone non sono morte perché hanno avuto la sfortuna di aver incontrato il virus e purtroppo non ce l’hanno fatta: sono persone che dovevano essere curate e non sono state curate», denuncia Merlo.

A questo si aggiunge «la scellerata idea di mandare nelle RSA i positivi, ma questo è “solo” un di più, che conferma l’idea che le strutture residenziali per persone fragili sono state considerate alla stregua di un deposito di persone “a fine corsa”. Nelle RSD è andata un po’ meglio, c’è stato un accesso alle cure maggiore. Ci sono dei morti – non sappiamo quanti perché ancora oggi gli operatori sono totalmente presi dall’operatività – ma non quanto nelle RSA, un’attenzione diversa da quella per le RSA c’è stata. In ogni caso abbiamo conferme del fatto che il sociosanitario non è stato equiparato al sanitario e questo è un errore», conferma.

Ledha non si occupa principalmente di anziani, «ma la questione è così forte che non può essere indifferenti. Dobbiamo tornaci sopra, perché qualsiasi evoluzione del sistema sociosanitario regionale non potrà non fare i conto con questo. Dobbiamo metterci nelle condizioni che non si ripeta mai più una cosa del genere. Questa è la prima cosa».

Merlo individua uno spartiacque nel ripercorrere come la disabilità è stata trattata in questa emergenza, ed è il #CuraItalia. Nelle prime settimane è mancato un pensiero sulle persone con disabilità come gruppo specifico, con bisogni specifici: c’è stato un meccanismo di scelte inerziali, burocratiche. Persone con situazioni di vita comparabili hanno ricevuto indicazioni diverse, da un Comune all’altro. «Questo è un elemento che continua e che caratterizza la reazione del sistema di welfare sociale alla pandemia: la frammentazione», afferma Merlo. Il #CuraItalia, il 17 marzo, ha chiuso i CDD, che nel frattempo si erano svuotati, dando inizio a un altro capitolo della storia, con la medesima mancanza di governo. Dopo la chiusura dei Centri, che assistenza alternativa è stata data? Le persone con disabilità hanno servizi alternativi, a domicilio ad esempio? «Ancora oggi, a un mese dal #CuraItalia, la situazione è differente da un Comune all’altro. Ma governare un sistema di welfare non significa solo emettere atti e delibere. Devi anche orientare le scelte, far lavorare insieme un sistema complesso. Questo non è stato fatto. C’è qualche buona pratica a livello territoriale, a Pavia, a Bergamo, a Milano. Lì i vari soggetti si sono attrezzati per gestire insieme la vicenda dei servizi alternativi. Non tutti però. In questo momento di emergenza abbiamo risorse bloccate, risorse di cui c’è un fortissimo bisogno».

Se proviamo a guardare al futuro, per Merlo c’è solo un modo per uscirne con un sistema di welfare migliore: «Dobbiamo uscire dall’idea che siamo in un tempo sospeso. Intanto questo è tempo di vita, nessuno ce lo restituirà dopo. E in secondo luogo un tempo sospeso può durare 15 giorni, certo non due mesi né tantomeno sei mesi. Non dobbiamo pensare a cosa vivremo dopo ma dobbiamo vivere così bene e intensamente l’adesso, che dopo avremo soluzioni. Di certo non sarà possibile riprendere come prima. Dobbiamo riprendere meglio di prima. Meno standardizzarti. Meno centrati sulla produttività e più incisivi», dice.

L’urgenza quindi è quella di avviare una comunità di lavoro molto ampia, che si senta accolta e che trovi in Regione un coordinamento. «Il sistema di welfare sociale per la disabilità lombardo è molto evoluto, abbiamo tutte le capacità per ripensare il sistema e fare un salto. La fatica deve essere quella di arrivare insieme a un atto di indirizzo così condiviso che sarà naturale per tutti applicarlo. Non abbiamo bisogno di linee guida calate dall’altro ma di decidere insieme alcune priorità, cosa bisogna garantire a tutti, dappertutto, anche provando e correggendo gli errori. Per le persone con disabilità la situazione presente durerà parecchi mesi. Le famiglie hanno dimostrato grande capacità di adattamento e di iniziativa, lo stesso i vari operatori ma non si può pensare di affrontare i prossimi mesi contando solo sulle risorse spontaneamente presenti negli operatori, nelle persone, nelle famiglie… È troppo rischioso».


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