Solidarietà & Volontariato

Il Terzo settore non si è fermato: «Ma siamo allo stremo»

Sono oltre 100mila i volontari impegnati nell'emergenza anti Covid-19. Con loro tanti operatori, in condizioni durissime, si stanno inventando modalità innovative per tenere aperti i servizi. Alcuni si sono ammalati: mancano ancora i supporti e i dispositivi di sicurezza necessari. L'inchiesta sul numero del magazine di maggio, scaricabile dal nostro sito

di Sara De Carli

In principio sono stati i volontari di Protezione Civile e delle Pubbliche assistenze: oltre a continuare a garantire il classico servizio di trasporto in emergenza, sono stati coinvolti nei call center, hanno misurato la temperatura ai passeggeri negli aeroporti, allestito le tende per i pre-triage negli ospedali, consegnato farmaci a domicilio e tamponi agli ospedali. Ma accanto a loro ci sono gli scout, che sin dalla prima ora si sono resi disponibili a consegnare la spesa a quanti non possono uscire di casa mentre le Caritas di tutte le diocesi d’Italia, con i loro volontari, hanno potenziato la distribuzione di pacchi alimentari ma anche i servizi di ascolto, ora declinati in via telematica, dando sostegno a chi è più provato da questa pandemia. C’è anche chi ha iniziato a produrre le introvabili mascherine. «Contro l’emergenza Covid-19, insieme a medici, infermieri e farmacisti ci sono oltre 100mila volontari in prima linea ogni giorno», ha detto giorni fa il ministero della Salute. Migliaia di persone che non si sono fermate. Che escono di casa per aiutare.

Garantiscono servizi essenziali che sono stati reinventa- ti in pochissimi giorni, sull’onda dell’emergenza, avendo prima e più di tutti il polso diretto della situazione e dei bisogni concreti delle persone, anche nelle nicchie più lontane dai riflettori. Il Terzo settore non è solo solidarietà: è innovazione, capacità di rispondere ai bisogni nuovi, creatività. Il suo vero valore aggiunto, per dirla con il professor Stefano Zamagni, uno dei padri dell’economia civile, sta nella sua «rivoluzionaria forza progettuale». Ecco uno racconto d’insieme, non esaustivo, di un sociale che sta tenendo in piedi il Paese e sta cercando di preparare un “dopo” radicalmente nuovo, pur tra le mille difficoltà del momento e di una politica ancora troppo incapace di valorizzarlo.

Volontari non garzoni
Secondo una ricerca svolta dal Csv dell’Emilia-Romagna, quasi la metà degli enti di Terzo settore della regione continua a svolgere attività di volontariato anche durante l’emergenza Coronavirus.

Solo quel questionario contava 10mila volontari attivi, di cui il 14% nuovi: fra loro moltissimi giovani alla prima esperienza. Il cappello “a domicilio” ha molte varianti, incluso l’aiuto per la cura di cani e gatti, le piccole riparazioni gratuite, il disbrigo di pratiche, mentre sotto la voce “a distanza” sono fioriti servizi di ascolto telefonici come pure un’infinità di tutorial messi gratuitamente a disposizione di scuole e associazioni. Altro che guardare al Terzo settore alla stregua di un garzone, come ultimo erogatore di servizi, come ha fatto il Governo centrale (vedi le regole per la distribuzione dei “buoni spesa”).

A livello territoriale, invece, si è visto talvolta uno scatto in avanti nei rapporti fra pubblica amministrazione e Terzo settore, ad esempio con i protocolli siglati con i Csv locali dalle regioni Emilia Romagna, Toscana, Veneto e Campania, che per la prima volta riconoscono ai Csv un ruolo strategico e operativo nella gestione dell’emergenza, per garantire i servizi di assistenza. A Padova, capitale europea del volontariato, 1.500 nuovi volontari hanno risposto all’appello per l’emergenza lanciato congiuntamente da Comune, Csv e Caritas. «Insieme prendiamo le decisioni, insieme lavoriamo. “Ricuciamo insieme l’Italia” è diventato un lavoro manuale, non solo culturale, siamo stati chiamati a reinterpretare il nostro essere capitale europea del volontariato», dice Emanuele Alecci, presidente del Csv padovano. I volontari di “Per Padova noi ci siamo” stanno consegnando spesa e farmaci a domicilio, grazie a una geolocalizzazione dei volontari, gestendo la raccolta solidale di cibi nei supermercati («perché il bisogno è aumentato e non bastano i buoni spesa del Governo», dice Alecci), distribuito 100 pc per consentire a bambini e ragazzi di seguire la didattica a distanza e da un mese gestiscono l’accoglienza in una struttura alberghiera di 55 senza dimora. «Ma non siamo garzoni né vogliamo esserlo. La chiave è proprio nel laboratorio condiviso che abbiamo messo in piedi, una cabina di regia che dovrà evolversi coinvolgendo anche le forze economiche della città, l’università, la camera di commercio…».

Anche i ragazzi del Servizio Civile sono da poco ripartiti: su 30mila, solo il 10% era rimasto attivo. Ora altri 23mila giovani hanno avuto l’ok per tornare in pista, in aiuto ad anziani, persone con disabilità, minori… Quasi 13mila ragazzi riprenderanno i loro progetti originari, mentre per altri 10mila c’è stato bisogno di rivedere i progetti, spesso declinandoli su attività da remoto.

I bambini invisibili
La quarantena preventiva è terminata. Le cinque ragazze stanno tutte bene e stanno per rientrare in comunità, i cui spazi nel frattempo sono stati sanificati: una struttura piccola, che non garantiva gli spazi per l’isolamento. Alla notizia di un operatore positivo, cinque educatori – in accordo con i servizi – non hanno esitato ad accogliere le ragazze a casa loro, per i quindici giorni della quarantena, mettendo a disposizione una camera e un bagno. A raccontare questo episodio è Liviana Marelli, referente per infanzia, adolescenza e famiglie del Cnca (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza). «Di noi non parla nessuno, nonostante ci siano 13mila minori accolti strutture residenziali per minori, al netto dei minori non accompagnati, più altri 14mila in affidamento familiare», dice con amarezza. Un mondo che non si è fermato neanche per un’ora. Anche gli educatori che lavorano in comunità e casa-famiglia sono eroi in prima linea: Giorgia Olezzi, coordinatrice della cooperativa sociale Open Group di Bologna, ha ideato l’hashtag #IoRestoInComunita per raccontare la vitalità di queste settimane accanto a bambini, ragazzi, migranti, persone con disabilità… «Pensiamo all’accoglienza nelle case rifugio di mamme e bambini che fuggono da storie di violenza e maltrattamento. O alle vittime di tratta. I nuovi ingressi non si sono mai fermati. E l’accoglienza va fatta subito, non c’è il tempo di aspettare l’esito di un tampone. Abbiamo individuato una casa separata, per i primi 15 giorni l’accoglienza la facciamo lì. In comunità si entra dopo», continua Marelli.

Ma i bambini veramente invisibili oggi sono quelli che vivono in famiglie fragili ma non ancora in carico ai servizi sociali, ragazzi che restavano a galla grazie alla rete di sostegno fatta di nido, scuola, centri educativi, oratori, doposcuola, progetti di contrasto alla povertà educativa… e che ora sono fuori da qualsiasi radar. Save the Children ha stimato che l’emergenza Coronavirus farà scivolare un milione di bambini dalla povertà relativa alla povertà assoluta, con tutto ciò che questo comporta: si aggiungeranno agli 1,2 milioni che già erano in povertà assoluta. L’impresa sociale Con i Bambini, soggetto attuatore del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, ha immediatamente sollecitato la rimodulazione dei 355 progetti in corso per il contrasto della povertà educativa, che coinvolgono 480mila bambini e ragazzi in Italia, insieme alle loro famiglie: è troppo importante che quei progetti non si fermino, equivarrebbe a permettere che il Coronavirus allarghi ulteriormente il gap esistente, creando bambini di “serie A” e bambini di “serie B”. Intanto esperti come Chiara Saraceno e Alessandro Rosina, di Alleanza per l’Infanzia, hanno segnalato come in questo abbozzo di “fase 2” si stiano ignorando i diritti dell’infanzia, le esigenze delle famiglie e le condizioni delle nuove gene- razioni, con i Millennials che hanno vissuto due crisi planetarie nel giro di dieci anni: il rischio è quello di passare dall’emergenza sanitaria a una emergenza sociale continua. «La distanza sociale ha un impatto pesante sulle famiglie già fragili e queste sono completamente invisibili. Per loro abbiamo chiesto con forza un “decreto bambini”», conclude Marelli. «È urgente implementare una infrastruttura sociale per farsi carico di loro, cominciando dal capire chi sono, territorio per territorio e pensando a misure di accompagnamento. E bisogna avere il coraggio di dire che occorre individuare modalità sicure per uscire dalle mura domestiche, rimettendo al centro la relazione».

Dove sono le ong?
Paola ha fatto parte della Missione 72 sulla OpenArms. Ora è in prima linea, in un reparto di terapia intensiva di Milano. La priorità è sempre la stessa, in mare e a terra: salvare vite. I medici e gli infermieri di Emergency stanno gestendo il reparto di Terapia intensiva e sub-intensiva del nuovo ospedale da campo realizzato a Bergamo dagli alpini, dedicato a pazienti a etti da Covid-19: sono 10 medici, 14 infermieri, 4 sioterapisti, 4 oss, un tecnico di laboratorio e un tecnico di radiologia, per 12 posti letto. Hanno collaborato anche alla progettazione della struttura, mettendo a disposizione l’esperienza maturata in Sierra Leone durante l’epidemia di Ebola. La Fondazione Francesca Rava Nph Italia ha attivato la sua task force di volontari sanitari esperti, già impiegati nelle emergenze terremoto e colera in Haiti e nel Mediterraneo, inviandoli in vari ospedali italiani: un anestesista rianimatore a Cremona, due infettivologhe all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, due ostetriche alla Mangiagalli di Milano, centro regionale per le donne in gravidanza e le neomamme positive al Covid-19.

Le ong sono in prima linea nell’emergenza Coronavirus e hanno messo a disposizione circa 1.500 operatori tra dipendenti e volontari, impegnati in attività di sostegno alle fasce di popolazione più vulnerabili, supporto medico ai rifugiati, minori e senza fissa dimora, distribuzione di pasti e spese solidali, informazione sui rischi di contagio… Diverse hanno attivato raccolte fondi in favore di ospedali italiani: basti pensare al Cesvi che ha raccolto e investito circa 4 milioni di euro per progetti legati all’emergenza sanitaria in Italia, partendo da Bergamo. Quattro ong su dieci hanno attivato speci che attività legate a Covid-19 in Italia e 5 su dieci all’estero, in 56 Paesi,

restando quindi operative per affrontare gli sviluppi della pandemia nel mondo. Le ong però sono la fetta di non profit che rischia maggiormente di essere penalizzata dalla netta virata delle donazioni a sostegno quasi esclusivo del- la sanità e del territorio, già documentata dalla mappatura dell’Istituto Italiano della Donazione: il 40 % delle ong, secondo un’indagine di Aoi solo nel primo mese di emergenza Covid-19 ha visto ridursi le entrate da raccolta fondi di almeno il 50%.

Rsa, il capro espiatorio
Tamponi e test sierologici a tutti gli ospiti e a tutti gli operatori di Rsa e Rsd. Dispositivi di protezione individuale (solo in Lombardia, che nelle strutture sociosanitarie ha 61mila posti letto e 30mila operatori, ne servono 15 milioni di pezzi al mese). Sorveglianza attiva. Sono queste, al 20 aprile, le richieste che arrivano dalle varie strutture sociosanitarie lombarde: residenze per anziani, per disabili, centri socio-sanitari. I loro operatori sono da settimane in prima linea, tanto quanto i medici degli ospedali, ma con attenzioni infinitamente inferiori. Queste strutture hanno affrontato l’emergenza in totale autonomia (alias in totale abbandono), spesso a mani nude.

Fermarsi alla Lombardia, in questo caso, significa stare nell’occhio del ciclone. Anpas, Ledha, Confcooperative, Legacoop, Uneba, Forum regionale del Terzo settore… da settimane lanciano Sos disperati: hanno denunciato la mancanza di dispositivi di protezioni individuali, «insufficiente e disomogenea» anche dopo il decreto Cura Italia del 17 marzo, quando per la prima volta il sociosanitario riuscì a conquistare un briciolo di attenzione da parte del Governo (che solo allora, praticamente un mese dopo il paziente zero di Codogno, stabilì che «i dispositivi di protezione individuale sono forniti in via prioritaria ai medici e agli operatori sanitari e sociosanitari»). Le realtà che sono riuscite a rifornirsi autonomamente di Dpi hanno visto i loro ordini intercettati e sequestrati in favore degli ospedali. Già a metà marzo Confcooperative e Legacoop Lombardia denunciavano che il 30% degli operatori del comparto sociosanitario erano malati o in quarantena; oggi nelle Rsa lombarde manca il 40-50% del personale. E il 30 marzo Ledha, Uneba Lombardia e Alleanza Cooperative Italiane-Welfare Lombardia insieme al Forum del Terzo Settore lombardo avevano denunciato la “strage degli innocenti” in atto nelle Rsa.

Le Rsa sono oggi il capro espiatorio perfetto, per errori fatti altrove. Sappiamo tutti come è andata: al 14 aprile 2020 la terza edizione della survey dell’Istituto Superiore di Sanità rivela che in questi mesi è mancato l’8,2% degli anziani ospiti di Rsa. In 4 casi su 10, la persona deceduta era positiva al Covid-19 o presentava manifestazioni simil-influenzali. In Italia sono 300mila gli ospiti di Rsa… (la versione inetgrale dell'inchiesta sul numero del magazine scaricabile gratuitamente dal link qui sotto)


Il numero è stato interamente prodotto in smart working
cover art: Massimiliano Marzucco & Matteo Riva


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