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Quell’ultima barba al senzatetto che dormiva nel parcheggio dell’ospedale

Dopo dieci anni vissuti in strada, Mohammed aveva scelto il parcheggio dell'unità spinale dell'Ospedale Cannizzaro di Catania come ultimo giaciglio. Medici e ausiliari gli portavano un pasto caldo e una coperta, fino a quando dopo l'intervento dell'associazione Insieme si è riusciti a far alzare da terra il senzatetto per poterlo curare. Ieri il taglio dei capelli e della barba che lasciavano sperare il meglio per quello che era conosciuto come un caso difficile. Ma purtroppo il senzatetto è morto qualche ora dopo essere stato "salvato"

di Alessandro Puglia

Poteva avere un finale a lieto fine la storia del senzatetto che per oltre due mesi ha dormito nel parcheggio dell’unità spinale dell’Ospedale Cannizzaro di Catania. Due mesi in cui – nonostante la pandemia – i singoli, in questo caso medici e ausiliari fuori dall’orario di servizio non hanno fatto mai mancare un pasto o una coperta a quel clochard che da lì non voleva spostarsi.

Mohammed, così si chiamava viveva in strada da oltre 10 anni. E in questo lungo arco di tempo ha trovato il suo giaciglio sempre temporaneo in diversi angoli della città. Dalla villetta di un altro ospedale etneo, ai portici di viale Mario Rapisardi, agli scalini della Chiesa di Sant’Antonio da Padova, fino a rifugiarsi nel paese di Aci Castello durante la festività di Sant’Agata perché chi lo conosceva sapeva che Mohammed non amava i botti e la confusione.

Dal 6 febbraio, immediatamente dopo la principale festa religiosa della città di Catania, aveva deciso che il suo tetto provvisorio doveva essere il parcheggio dell’ospedale vicino alla piazzola dell’elisoccorso. Ma Mohammed non si faceva facilmente avvicinare. Fino a quando la direzione dell’ospedale Cannizzaro si è messa in contatto con Giuseppe Messina, presidente dell’associazione Insieme, da sempre a fianco dei senzatetto e pronto ad aprire le porte della sua casa-famiglia alle pendici dell’Etna ai più bisognosi.

E Giuseppe Messina, soprannominato “il vagabondo di Dio” è riuscito a fare l’impensabile: convincerlo una volta per tutte a lasciare la strada. Bardato di mascherina e con il suo furgone sempre pieno di generi alimentari il presidente dell’associazione Insieme ha cercato di stabilire un contatto con il senzatetto. «Faceva fatica a muoversi e a parlare, sicuramente aveva qualche patologia pregressa, ma non spetta a me dirlo. Insieme all’assistente sociale che l’ha preso in carico abbiamo cercato di fare il possibile per salvarlo, segnalandolo più volte alle istituzioni ». Ieri, martedì 28 aprile, succede quello che tutti qui desideravano. Con grande fatica Giuseppe Messina, insieme ad altri ausiliari dell’Ospedale riescono a sollevare Mohammed da terra: «Si muoveva a malapena, ma è riuscito ad afferrare la mia mano e a portarla sul suo petto». Muniti di guanti, tute protettive e mascherine, gli infermieri riescono a lavarlo e a raderlo. Quell’uomo con la lunga barba bianca e bionda aveva ieri un altro volto, ed era pronto per essere trasferito in un reparto per tutte le cure del caso.

Mohammed è morto di notte al pronto soccorso dell’ospedale. Ma a noi piace ricordarlo con quell’ultima sforbiciata a barba e capelli degli uomini con la tuta bianca che gli avevano restituito una nuova dignità.

«Il nostro è un mondo senza pietà, non conosce la misericordia, utilizza schemi e regole che non guardano alla persona, al suo benessere, alla sua possibilità di vivere. Ci troviamo di fronte alla morte di un uomo, che è morto così come ha vissuto. La sua morte non può passare inosservata e deve essere un monito perché ci sono altre vite che possono ancora essere salvate», commenta Dino Barbarossa, presidente di Fondazione Ebbene.

«Diverse volte ho tentato di avvicinare Mohammed parlando anche la stessa lingua, ma purtroppo non siamo riusciti ad aiutarlo come desideravamo perché lui poneva sempre una barriera. Ed è difficile in questi casi. Questa morte deve farci riflettere perché nessuno può essere lasciato in strada soprattutto in questo tempo di pandemia», aggiunge Keith Abdelhafid, Imam di Catania e presidente della Comunità islamica di Sicilia.

«È morto a causa dell’indifferenza. L'avrei voluto a pranzo in casa, ridere e scherzare con lui», dice adesso Giuseppe Messina che prima di vedere andar via Mohammed era riuscito dopo 10 anni a togliere quel caso difficile dalla strada. Anche solo per qualche ora. «Lo trovavo circondato da decine di bottiglie di birra, quando mi ha toccato l’ultima volta sentivo la sua mano fatta di vomito. Per me quella mano era una carezza di Dio».


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