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Economia & Impresa sociale 

Lavoro, cittadinanza, dignità in un mondo che cambia

Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, quasi un miliardo e mezzo di persone rischiano di perdere il lavoro a causa della crisi provocata dall'emergenza Covid-19 che metterebbe a rischio quasi la metà dei posti di lavoro nel mondo. Ne parliamo con il sociologo Pietro Piro

di Marco Dotti

Per chi e perché lavoriamo? Perché sacrifichiamo così tante energie in un’attività che spesso ci porta a vivere tante ore lontano dalla famiglia, dagli amici, dalle nostre passioni? Ma soprattutto: domani, lavoreremo ancora?

Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, quasi un miliardo e mezzo di persone rischia di perdere il lavoro in conseguenza dell'emergenza Covid-19. Quasi metà dell'intera forza lavoro globale, stimata in 3,3 miliardi di persone, si trova esposta a questa nuova ondata di vulnerabilità sociale.

Pietro Piro è sociologo e ha dedicato a questi problemi studi, impegno e ricerche da Perdere il lavoro, smarrire il senso (Mimesis, 2018) al recente L'uomo nell'ingranaggio (Edizioni La Zisa, 2019). Lo abbiamo incontrato, alla vigilia di questo Primo maggio alquanto anomalo.

Domani celebreremo una Festa dei lavoratori in una condizione di grande difficoltà per l’intero Paese e rischiamo che il senso profondo di questa celebrazione possa passare in secondo piano. Eppure, mi pare che il tema del lavoro possa essere messo al centro della riflessione su quello che abbiamo vissuto e su quello che vivremo nel prossimo futuro. Che ne pensi?
L’occasione del Primo Maggio, ci permette di tornare a ragionare, per un attimo, su quella che ritengo essere la questione centrale della nostra organizzazione sociale: il lavoro. Siamo stati travolti da una emergenza socio-sanitaria che ha assorbito – inevitabilmente – tutte le nostre energie. Per un attimo, ci siamo dimenticati di tutto per cercare di tutelare il bene più prezioso: la nostra salute. Tuttavia, proprio questa situazione di estrema difficoltà ha messo in evidenza come il tema del lavoro rappresenti una questione primaria in una società complessa come la nostra. Se possiamo cominciare a ipotizzare un passaggio alla cosiddetta Fase 2, è perché una parte del mondo del lavoro è rimasta saldamente al proprio posto per permettere ad un'altra di conservare la salute. Milioni di lavoratori si sono esposti ad un enorme rischio per garantire quei livelli minimi di sussistenza senza i quali una società rischia di disintegrarsi. Penso, certamente, al personale sanitario e dei servizi socio-sanitari ma anche ai contadini, agli autotrasportatori, ai cassieri dei supermercati, ai fornai, agli addetti alle pulizie e a tutti quelli che con la loro silenziosa abnegazione al lavoro, hanno permesso che il Paese non sprofondasse nel caos. Si pensi per un attimo a quanti volontari hanno contribuito, in diversi settori, alla “tenuta civile” del Paese. Credo che questo Primo Maggio debba essere dedicato a loro. Lavoratori che tutelano altri lavoratori.

Siamo dunque lontani da una possibile “fine del lavoro”?
Questa crisi che stiamo affrontando è una crisi del lavoro e nel lavoro. Non nascondo le mie più profonde preoccupazioni per l’intero sistema produttivo. Le rassicurazioni del Governo non coincidono con gli andamenti reali dell’economia e con i sentimenti dei lavoratori. Chi soffre di più in questa fase? Quei lavoratori che hanno delle forme contrattuali instabili e precarie, chi vive “alla giornata”, i lavoratori in nero, le piccole imprese a conduzione familiare, i piccoli commercianti, i ristoratori, gli addetti al turismo, i lavoratori stagionali, chi cerca un lavoro da tempo e chi un lavoro non l’ha mai avuto e lo desidera. Ancora una volta, in questa economia canaglia, i grandi hanno più speranze di sopravvivere mentre i piccoli rischiano di soccombere. Prevedo uno spaventoso aumento della disoccupazione perché interi settori produttivi espelleranno migliaia di lavoratori. Tutto questo avrà delle enormi conseguenze su tutto il sistema economico e sociale. Se prima trovare lavoro era difficile, d’ora, in poi sarà quasi impossibile.

Quali cambiamenti prevedi?
I cambiamenti sono già in atto in queste ore. Aumenterà il ricorso al lavoro domestico – che è cosa ben diversa dallo smart working – con conseguenze enormi sull’organizzazione familiare. Aumentando il lavoro domestico, la presenza dei lavoratori nei consueti luoghi di lavoro si farà sempre più esile e questo imporrà delle trasformazioni nella gestione di tutto l’apparato produttivo. Questo movimento di privatizzazione del lavoro, indebolirà lo statuto sociale del lavoratore, la sua piena cittadinanza e renderà ancora più difficile la difesa collettiva dei propri diritti. Il lavoratore sarà sempre meno “classe” e più “singolo” in un movimento – direi pericolosissimo – di isolamento e indebolimento. La digitalizzazione aumenterà esponenzialmente favorendo quanti sono già preparati in questa direzione e lasciando indietro chi non è ancora pronto. I salari rischiano di abbassarsi notevolmente e la quantità di disoccupati che busseranno alle porte delle aziende renderanno ancora più dura la competizione tra i lavoratori. Credo che aumenteranno anche i NEET perché ci sarà una forte reazione di rifiuto – soprattutto fra i giovani – di una società sempre più escludente e insensibile. Il lavoro diventerà sempre più “merce rara” e “bene scarso” e un “buon lavoro” un miraggio per la maggioranza della popolazione mondiale. Ovviamente, chi potrà avere un buon lavoro, apparterrà a una categoria ristretta di privilegiati. Non escludo anche un forte movimento di ritorno all’agricoltura di sussistenza soprattutto nel Sud del Paese e un aumento esponenziale del divario Nord-Sud. Inoltre, credo che in questi giorni sia emerso con forza quanto il lavoro di cura sia essenziale per garantire il funzionamento di una società complessa come la nostra. Credo sia arrivato il momento di riconoscere che una madre che si prende cura dei suoi figli deve avere il diritto a una retribuzione e a delle tutele. Così come per chi si prende cura dei propri anziani genitori.

Credi che l’adozione di un reddito di emergenza o universale possa essere una soluzione?
Può essere uno strumento utile per evitare il disastro sociale. Ma è del tutto inutile dal punto di vista della dignità della persona e della piena cittadinanza. Quando si accetta che buona parte della popolazione sia retribuita unicamente per consumare, senza nessuna forma concreta, verificata e verificabile, di restituzione comunitaria, si mette in discussione il “fondamento” stesso della nostra carta costituzionale. Eppure, stiamo abituando sempre più persone a vivere in questo tremendo limbo. Mi pare sia una delle più grandi tragedie del nostro tempo: lo spreco delle migliori qualità umane (questo mi ha insegnato la frequentazione delle opere di Danilo Dolci).

Quali saranno le conseguenze sul Terzo Settore?
In questi giorni non sono mancate analisi approfondite su questo tema. Ovviamente le conseguenze saranno enormi. Però, più che ipotizzare scenari precisi, credo sia più utile valutare se i “tempi sono maturi” per un “cambio di paradigma sociale”. Io credo di si e ritengo che il passaggio decisivo sia quello di passare dall’eccezione alla norma. Non possiamo rimanere in eterno sul terreno delle “buone pratiche” senza che la politica trasformi gli esempi virtuosi – con comprovata tenuta nel tempo – in un modello sociale diffuso. Il Terzo settore ha dimostrato di essere maturo per guidare lo sviluppo e non solo per sperimentarlo in un ambito ristretto e quasi nascosto. Occorre prendere fiducia nelle proprie esperienze e nelle osservazioni fatte in questi anni per far maturare una coscienza diffusa dei problemi sociali differente. Altrimenti, rischiamo di sparire, nell’eterna ricerca di una società “totalmente nuova” che non può esistere senza un processo di fecondazione del “vecchio paradigma”. A volte, ho la sensazione, che lo sviluppo sociale del nostro Paese sia affidato “alla buona volontà” dei tanti che si cimentano – spesso a proprie spese – sui problemi più difficili e spinosi. Ma quando arriva il momento in cui si passa dalla buona volontà alla programmazione socio-politica? Sé dobbiamo fare un lavoro serio, nel prossimo futuro, dobbiamo accettare e far accettare a tutti che il Terzo Settore è un punto di riferimento imprescindibile per pensare lo sviluppo di una nazione avanzata.

Cosa significa il Primo Maggio per te?
Da bambino, mio padre mi portava spesso a Portella della Ginestra, dove il primo maggio si teneva una grande manifestazione per ricordare l’eccidio dei lavoratori del 1947. Ricordo nettamente, che quella giornata rappresentava un momento di festa e di memoria, di gioia e di testimonianza civile. Al vento forte quasi si strappavano le bandiere dei partiti e dei sindacati e tutto mi sembrava avesse un senso molto profondo. Sono cresciuto con l’idea che i lavoratori siano la più grande forza sociale di un Paese, perché dotati di una potenza creativa unica. Nel corso del tempo, mi sono accorto che impedire ai lavoratori di acquisire una coscienza unitaria di “classe” sia funzionale agli interessi di chi estrae profitto dalla loro membra, come un tremendo vampiro. Credo che il Primo Maggio sia una festa civile molto importante che debba favorire la riflessione sulla natura e sul destino del lavoro. Tuttavia, credo che questa emergenza che stiamo vivendo impone un altro tipo di lavoro.

Quale tipo di lavoro?
Il lavoro di elaborazione del trauma. Dobbiamo dedicare tempo ed energie per lavorare profondamente su questo periodo che stiamo vivendo. Non possiamo fare finta di nulla. Altrimenti, rischiamo di non riuscire a costruire il futuro devastati dai fantasmi della paura. Lo psicanalista Maurizio Montanari sostiene che lo stato deve farsi carico gratuitamente del supporto psicologico per il trauma subito dal personale socio–sanitario. Credo che questa opportunità sia da estendere a chiunque senta il bisogno di un aiuto. Possiamo pensare al lavoro e al suo futuro solo sé abbiamo dei lavoratori in salute, pronti a farsi carico del futuro. La Speranza è un lavoro duro.


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