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Rsa più piccole e aperte al territorio: una sfida per il Terzo settore

Occorre cambiare radicalmente un sistema di finanziamento ingessato e vecchio di oltre vent’anni, che per remunerare pazienti sempre più gravi ha reso sempre più precaria la qualità delle cure e che ha incentivato poco l’apertura delle residenze verso il contesto che le circonda. Nel nuovo modello il non profit può giocare un ruolo da protagonista

di Sergio Pasquinelli

Dopo la strage, tuttora in corso e dalle dimensioni inaudite, la reputazione delle grandi strutture residenziali per anziani (Rsa) sarà inesorabilmente segnata, spingendo sempre più le famiglie a considerarle una opzione limite, di ultima istanza, accelerandone la trasformazione verso grandi hospice. Peraltro, una tendenza già in atto. Per non finire così le Rsa dovranno ripensarsi, per riguadagnarsi credibilità e adattarsi a bisogni che saranno cambiati. Indico tre piste di lavoro: le Rsa come agenti del territorio; una residenzialità diversa dalle grandi strutture; le nuove competenze necessarie.

Le Rsa come agenti del territorio

Inviare, come è successo in Lombardia, pazienti Covid in convalescenza presso le Rsa, al di là degli effetti che saranno accertati, ha significato trattare queste strutture come dépendance degli ospedali e non, viceversa, come presidi sul territorio, che proprio sul territorio avrebbero potuto rafforzare interventi di prossimità. In questo senso è stata tradita quella spinta verso le “Rsa aperte” adottata dalla Lombardia e da altre regioni come il Piemonte, per venire incontro alle esigenze di sostegno domiciliare. In questa emergenza, l’apertura praticata è stata solo nei confronti degli ospedali, con conseguenze deleterie.

La difficoltà negli spostamenti che l’epidemia ci impone porterà a rivalutare la vita di quartiere, le relazioni di prossimità. La Rsa del futuro ha l’occasione allora di diventare un luogo davvero aperto, amico del territorio, capace di innescare una osmosi con i suoi abitanti, attraverso un insieme di proposte da progettare insieme alla comunità locale: aiuti domiciliari, di varia tipologia e intensità, centri diurni, sostegni ai familiari, supporti al lavoro privato di cura, quello svolto dalle badanti, proposte per l’invecchiamento attivo. Ma anche semplici azioni di informazione, orientamento e counseling, oggi ancora molto sporadiche. Finora tutti questi interventi sono stati considerati con simpatia dagli enti gestori, dai cosiddetti provider, ma non sono ma diventati oggetto di reale investimento, per un motivo fondamentale: sono poco remunerativi.

Qui sta il nodo: occorre cambiare radicalmente un sistema di finanziamento ingessato e vecchio di oltre vent’anni, che per remunerare pazienti sempre più gravi ha reso sempre più precaria la qualità delle cure e che ha incentivato poco l’apertura delle residenze verso il contesto che le circonda.

Strutture più piccole: un nuovo spazio per il terzo settore?

Mediamente, tra il 10 e il 20 per cento degli anziani ospiti delle Rsa sono “ricoveri impropri”, perché riguardano persone con necessità di un’assistenza meno intensa di quella offerta da queste strutture, con problemi moderati di autonomia. Non tutti questi soggetti potrebbero essere adatti a soluzioni alternative alle RSA, ma la maggioranza sì. Strutture più piccole e più aperte rappresentano una soluzione win-win: positiva per anziani meno reclusi in grandi strutture poco flessibili, più modellabili in base alle caratteristiche degli ospiti e meno costose e complesse da gestire rispetto alle Rsa, con un livello di sicurezza più presidiabile.

Le comunità residenziali, le abitazioni protette, le forme di “abitare leggero” non superano solitamente i 25-30 posti, offrono un sostegno prevalentemente, ma non esclusivamente, di tipo sociale, sulle 24 ore, orientato a favorire l’autonomia, con l’obiettivo di “restituire la persona alla comunità”. A fianco di queste ci sono anche le esperienze di housing sociale e mini alloggi, ossia piccoli appartamenti per una o due persone, contigui, dove l’anziano gestisce in autonomia la sua quotidianità condividendo però una serie di servizi (come le pulizie, la lavanderia, talvolta una mensa, interventi di assistenza alla persona e così via).

Le forme abitative leggere disegnano uno spazio nuovo, che attira meno i grandi gruppi privati profit propagatisi sul modello tradizionale di ricovero. Uno spazio rilevante invece per l’economia e il terzo settore, che possono giocarsi qui immaginazione e innovazione organizzativa, coniugando (e rivalutando) le dimensioni della solidarietà con quelle del mutualismo.

In termini di governance, la diversificazione nella tipologia di offerta residenziale impone un serio governo della domanda, cioè una regia (super partes, pubblica) capace di valutare attentamente i singoli casi e di indirizzarli verso la soluzione più coerente. Ciò richiede una infrastruttura professionale e organizzativa – presente solo in alcuni contesti regionali – necessaria per configurare una rete meno monoliticamente centrata sul “modello Rsa”.

Rinnovate competenze professionali

Le professioni che operano nelle Rsa sono da molto tempo aggrappate a profili rimasti sempre uguali. La residenzialità, leggera o pesante che sia, avrà bisogno di nuove competenze. Penso a due ambiti in modo particolare.

Il primo è quello legato alla crescita esponenziale delle patologie di tipo cognitivo, Alzheimer, demenze. E’ ancora limitata la capacità di trattare in modo adeguato questo tipo di patologie, al plurale perché si tratta di molte e variabili condizioni. Non c’è solo bisogno di medici super specialisti o di nuovi nuclei Alzheimer dentro le residenze: le residenze di domani dovranno investire molto sulla formazione degli Oss, figura nevralgica, e rendersi versatile – per esempio – come supporto ai familiari nella gestione dei segnali precoci, l’intercettazione della malattia nei suoi esordi, quando le famiglie si trovano molto disorientate e molto sole.

In secondo luogo gli operatori di domani dovranno avere dimestichezza nell’uso delle nuove tecnologie e della tecnoassistenza. Penso alla teleassistenza, di seconda e terza generazione (sensori di localizzazione, App dedicate, supporti web), tecnologie assistive in “residenze intelligenti”, trasporti smart, teleriabilitazione. Le residenze del futuro dovranno dotarsi di queste attrezzature, e di personale in grado di gestirle. Ben sapendo che non sostituiranno mai una relazione in presenza, ma la potranno efficacemente coadiuvare.


*direttore di ricerca Irs (Istituto per la ricerca sociale)


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