Welfare & Lavoro

Verso un welfare a un metro di distanza

Il sistema del welfare nel tempo del “ciò che era” già versava in una situazione di affaticamento e il tempo del “quello che sarà” dobbiamo ancora costruirlo. Durante il lockdown abbiamo riscoperto la comunità di prossimità. Per questo possiamo ora immaginare un sistema welfare ri-partendo dalle relazioni peer-to-peere e dalla forza del capitale solidale in comunità locali

di Valentina Asquini

Abbiamo ormai superato i cinquantagiorni di lockdown, ormai siamo (quasi) tutti consapevoli di quanto la nostra vita sia cambiata, come individui e come comunità. Le trasformazioni a cui abbiamo assistito sono molteplici e di differente caratteree anche se non ce lo aspettavamo molte delle nostre abitudini si sono adeguate al contesto e siamo stati estremamente resilienti nell’adattarci giorno dopo giorno ai cambiamenti che ci sono stati imposti. Alla soglia di una fase 2 ancora tutta da comprendere fino in fondo stiamo, neanche più tanto faticosamente,immaginando la nostra vita in questa nuova fase di convivenza con il virus e lo spettro del virus stesso.

Le relazioni, personali e professionali si sono ormai spostate su nuove logiche che hanno messo al centro gli strumenti digitali come tramite di comunicazione, di lavoro e di cura. Sì, proprio di cura. Con il Covid19 ci è stata imposta, per ragioni di salute e di sicurezza una distanza “sociale” di (almeno) 1metro. Questa distanza ha creato veramente un distanziamento sociale? Ognuno di noi ha dovuto fare in questi mesi un esercizio di resistenza, di sopportazione, di tolleranza e di tenacia –alla noia? alla convivenza forzata? alla paura di perdere il lavoro? alla nostalgia dei propri cari? alla vulnerabilità fisica? –in cui è emerso inesorabile quel senso di comunità che forse avevamo perso? Dimenticato?

La crisi e l’emergenza sanitaria che abbiamo vissuto hanno dimostrato in modo spontaneo la teoria di Robert Sugden, economista inglese, che afferma che sono i beni relazionali a determinare il benessere. Un bisogno di benessere collettivo che ci ha visti tutti protagonisti di un processo di solidarietà generativa. E’ stato forse questo distanziamento, che proverei a definire “spaziale” che ci ha permesso di renderci contoche esiste uno spazio intorno a noi che abbiamo fattofatica fino ad ora a guardare? “Gli spostamenti possono essere effettuati solo in aree “limitrofe”alle proprie abitazioni, l’attività sportiva è limitata nei pressidella propria casa. “E allora iniziamo ad affacciarci ai nostri balconi e scorgiamo il sorriso di un vicino mai incontrato, usciamo mascherina-muniti a fare la spesa e qualche condomino si scambia un salutopiù caldo di prima e chiede se si conoscono situazioni di fragilità tra gli abitanti del palazzo. Bè si, ci sono. Lavoratori senza tutele rimasti a casa, persone anziane sole, famiglie che convivonoin contesti di sfruttamento e di povertà.La stragrande maggioranza di queste situazioni esistevano da ben prima che il virus facesse la sua comparsa, ma ora forse le loro situazioni sono più critiche? Ne parliamo di più? O ci sentiamo tutti più uniti perché versiamo anche noi, più di prima,in una situazione di fragilità e facciamo fatica a pensare ad un futuro che ci rende sereni?

E proprio in questa cornice qualcosa inizia a muoversi, in questo spazio-tempo tra il “ciò che era” e “quello che sarà” proviamo a trovare delle risposte a dei bisogni estremamente nuovi e inaspettati. Il sistema del welfare nel tempo del “ciò che era” già versava in una situazione di affaticamento e il tempo del “quello che sarà” dobbiamo ancora costruirlo, e quindi succede che ognuno di noi si sente investito di una responsabilità che non è solo verso séstesso, che implica il benessere di una comunità complessa, potenzialmente molto grande, ma che si sente parte di un momento che ci vede tutti un po' protagonisti. “Metti la mascherina”, “togli la mascherina”, “disinfetta e disinfetta-ti”, “mettiti in fila”, “rispetta le distanze”, queste solo alcune delle gestualità quotidiane che possono essere paragonate a delle ritualità che come comunità allargata stiamo mettendo in pratica, e che, nonostante la stanchezza e la fatica nel metterle in atto ci permettono di creare sottili legami con quella ritrovata “comunità di prossimità”.

Parliamo di dirimpettai, vicini di casa, abitanti del quartiere. Il sistema di “cura” che abbiamo potuto osservare in questi ultimi mesi ha visto come attivatori soggetti non formalizzati e spontanei, attori locali (individui e reti di cittadini) radicati territorialmente e con un alta conoscenza delle infrastrutture relazionali in uso dalle comunità di riferimento. Sto parlando dei sistemi di aiuto di quartiere, spese sospese di zona e brigate di solidarietà; sono solo alcuni degli esempi di un welfare a chilometro 0, mosso da un capitale solidale risvegliato e rafforzato. Con capitale solidale intendiamo l’impegno politico-sociale capace di muovere attivamente una comunità di riferimento in supporto alla comunità stessa favorendone il suo benessere collettivoin risposta ai bisogni e/o ai disagi che ciclicamentela affliggono.

Come diceva una attualissima Hannah Arendt «Discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri viventi appaiono gli uni agli altri non come oggetti e fisici, ma in quanto uomini». Credo sia fondamentale ragionare sulla possibilità di re-immaginare un sistema welfare ri-partendo dalle relazioni peer-to-peere dalla forza del capitale solidale in comunità locali.

*Co-fondatrice di Itinerari Paralleli


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