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Anna Ramirez e Anna Gonzales. Le donne messicane alle prese con virus

In Messico oggi si contano 17mila contagiati e 1600 morti per il Covid 19, mentre le strutture sanitarie sono insufficienti a gestire casi respiratori e le unità di terapia intensiva rappresentano una goccia nell’oceano dei possibili contagi

di Nicola Nicoletti

Anna Ramirez non si è mai persa d’animo. Quando, incinta del terzo figlio il compagno l’ha lasciata nel paesino dove vive, nell’afosa Coahuila, Messico del Nord, ha iniziato a cucinare: carne, fagioli e tamales, un piatto tipico, con vari ripieni accompagnati da acqua con limone. Ha venduto cibi semplici, della cucina popolare, che le hanno permesso di far crescere i figli. Per arrotondare, il sabato puliva le case di alcune famiglie. La sua pelle è scura, come quella degli indios, parla poco, e ha saputo tirare avanti senza lamentarsi, ma non era pronta alla pandemia. Anche qui il Covid 19 ha fatto le sue vittime, non morti per il virus, ma disagiati, poveri che hanno perso il lavoro.

Da quando il governo del presidente Lopez Obrador, tra altalenanti indecisioni su cosa fare ha deciso di far chiudere i locali che non avessero la giusta distanza, la sicurezza dichiarata di un metro e mezzo tra i tavoli e riducesse tante micro attività economiche, Alma lavora pochissimo e sta per diventare nonna. La donna di quasi quarant’anni non si è persa d’animo, ma avverte la difficoltà del momento. Il presidente messicano, logorroico oratore, afferma sempre che tutto va bene, dimenticando una bella fetta della sua popolazione. Lo si avverte alle frontiere nord e sud del Paese, dove centinaia di emigrati, anche messicani, dagli Usa stanno tornando nelle città di origine avendo perso il lavoro a New York o in stati come la California. È una migrazione al contrario, dal nord al sud, poiché non avendo più lavoro, non possono vivere negli Stati Uniti, una delle aree più care al mondo, particolarmente nello stato di New York.

In Messico oggi si contano 17mila contagiati e 1600 morti per il Covid 19, mentre le strutture sanitarie sono insufficienti a gestire casi respiratori e le unità di terapia intensiva rappresentano una goccia nell’oceano dei possibili contagi.

Di certo il Messico, un Paese con più di 130 milioni di abitanti, non dispone di abbastanza centri specializzati utili a una pandemia come il Covid 19, nonostante le assicurazioni che tutto andrà bene del presidente della repubblica che teme più le conseguenze finanziare di quelle sanitarie.

In questi giorni le misure preventive stanno colpendo l’economia della popolazione indigente che qui è enorme, il 52% dei messicani.

A Monterrey donne come Ana Gonzalez, hanno perso il lavoro. «Mi hanno dato i soldi della settimana dalla finestra: 400 pesos (20 euro), dicendomi di non passare fino a quando non cessa l’emergenza», racconta, «Alla tivù ci spingono a far le provviste, ma con questi soldi posso solo comprare il cibo per oggi, come metto qualcosa da parte se non lavoro?».

È la situazione di una importante fetta del Paese, la stessa che sta rientrando dal sud del Messico. «Eravamo emigrati dal Chiapas; adesso che qui si è fermato tutto, non possiamo più rimanere». Lo stesso accade per le famiglie che rientrano in Guatemala. A Tapachula, frontiera sud, solo ora i controllo sono più attenti. La scarsa attenzione alle situazioni di salute rimane una minaccia per un Paese che non può assicurare la cura alle classi povere. Alla fermata del metro Tacubaya, a Città del Messico, quasi nessuno ha le maschere sanitarie. Qui la gente è più preoccupata di non perdere il lavoro che a cercare di proteggersi. Più di 44 milioni di messicani, secondo l'Istituto Nazionale di Statistica e Geografia, non ha una fornitura giornaliera di acqua nelle case: come potranno lavarsi e seguire così le norme per prevenire il Coronavirus?


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