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Costi e valori in sanità: cosa insegna l’esperienza della pandemia da Covid-19

La pandemia ha mostrato le debolezze dell’avere il solo profitto come principio organizzatore dei sistemi di cura. Ciò che ha aiutato ad evitare la paralisi e il tracollo del sistema sanitario è stato lo sforzo individuale degli operatori sorretto dall’incoraggiamento reciproco mostrato dall’intera comunità verso quanti si sono sacrificati per alleviare le sofferenze. E’ emerso con grande forza come nelle situazioni limite le cure tecnologiche non siano sufficienti

di don Tullio Proserpio* e Carlo Alfredo Clerici

Pochi giorni fa in un ospedale oncologico. A causa delle misure di contrasto dell’epidemia le visite dei pazienti non urgenti sono state rimandate e per evitare l’affollamento nell’ambulatorio i pazienti sono stati distribuiti in fasce orarie, Il risultato è di aver maggior tempo a disposizione per le visite. Un oncologo racconta di come, nonostante il momento difficile, il rapporto con i pazienti sia più gratificante e come i pazienti si rivolgano al medico per avere conforto sulle proprie preoccupazioni raccontando non solo elementi di interesse clinico ma fatti della vita quotidiana. È bello lavorare così, sottolinea il collega, è come dovrebbe essere il lavoro ogni giorno. Mi immaginavo quando ero studente che questo fosse il lavoro quotidiano del medico…


Durante la pandemia da Covid-19 si sono messe in movimento risposte individuali di paura e adattamento al rischio così come si sono avviati mutamenti che oggi è possibile intravedere. La pandemia ha portato una rinnovata consapevolezza nella società del valore del lavoro in ambito sanitario e ha sollecitato nel contempo una riflessione sui costi economici e i valori coinvolti nel processo di cura. L’aspetto non è nuovo ma senz’altro l’attenzione dell’opinione pubblica è stata rivolta, almeno temporaneamente, agli sforzi che il sistema sanitario pubblico italiano, mortificato da decenni di tagli di dotazioni e personale, ha sostenuto per fronteggiare l’epidemia. La narrazione mediatica ha dedicato ampio spazio ad aspetti clamorosi come l’eroismo dei sanitari, accantonando spesso la più complessa e meno emozionante disamina dei percorsi storici, politici e burocratici che hanno portato a un indebolimento del servizio sanitario, una delle più preziose risorse della nostra nazione.

Sotto la spinta della marea di pazienti gravi affetti da Covid-19 è giunta all’osservazione pubblica senza camuffamenti retorici e mediatici la carenza di macchinari e di personale, compensata in tempi ordinari dallo sforzo del personale sanitario, che da anni evidenzia la non adeguatezza degli organici necessari a garantire adeguato aiuto e sostegno. Durante la pandemia è emerso il valore delle relazioni e la desolazione di quando queste mancano. Le relazioni sono state messe in pericolo ovunque. Nei reparti Covid-19 gli ammalati sono stati assistiti senza la possibilità di visite dei familiari. Neppure l’ultima relazione, il saluto di congedo dai propri cari defunti, è stato possibile, accrescendo il dolore e la sofferenza.

In ambito sanitario, anche in tempi ordinari, la relazione non ha mai trovato un reale riconoscimento al di fuori di affermazioni retoriche come il fatto che il tempo della comunicazione sarebbe tempo di cura. Mancano ancora adeguati riconoscimenti del fatto che per una buona cura, sia imprescindibile offrire anche buone relazioni in grado di alimentare ogni giorno la speranza e la consapevolezza di essere accompagnati ogni giorno nel percorso della malattia.

Sono però diversi i valori alla base dell’attuale organizzazione sanitaria, strutturata per consentire allo Stato e agli imprenditori privati di basare l’orientamento degli interventi su criteri economici. Sarebbe ingenuo pensare di abbandonare questo piano fondamentale ma si ripropone con vigore la domanda se l’organizzazione possa basarsi su una prevalente ricerca di profitti e se la salute dei cittadini possa essere esclusivamente considerata un business. Molte voci sottolineano oggi come la salute non possa essere validamente garantita soltanto dall’erogazione di prestazioni tecnologiche. La pandemia Covid-19 ha ricordato con grande forza, che la salute non dipende soltanto dalle adeguate strutture sanitarie ma anche dalle condizioni di vita, dalla tenuta economica della società, dal benessere delle famiglie e molti altri fattori ancora.

Da anni l’organizzazione dei sistemi che devono garantire la salute si è ridotta prevalentemente a logiche economiche anche a causa della crescita dei costi dati dall’evoluzione delle tecnologie di cura. L’esperienza degli Stati Uniti ci ricorda però che una prospettiva sanitaria prevalentemente industriale e tecnologica non diminuisce i costi complessivi della cura, ma al contrario li accresce, aumentando anche disparità gravi nelle possibilità di accesso alle cure nella società.

È una medicina che ottiene maggiori successi ma che costa di più. La disponibilità di tecnologie diagnostiche e terapeutiche costose e sempre più evolute influenza anche la pratica clinica e i carichi di lavoro dei sanitari. Le strumentazioni complesse e costose devono essere impiegate a pieno regime per bilanciarne i costi, e la situazione diventa estrema nei contesti di imprese sanitarie la cui missione aziendale è il fatturato. Da qui all’ottica taylorista della catena di montaggio il passo è breve. Si verifica il paradosso per cui, mentre in gran parte del mondo si muore per malattie che da decenni potrebbero essere guaribili, nelle società occidentali le cure sono così tecnologiche e costose da non essere probabilmente più a lungo sostenibili dai sistemi sanitari pubblici.

L’ambito sanitario è un particolare crocevia di diritti fondamentali, aspetti scientifici, dimensioni biologiche, psicologiche, sociali, spirituali e antropologiche. I sistemi di cura si trovano inoltre a dover bilanciare la realizzazione di questi diritti – in Italia previsti dalla Costituzione – in modo etico ed attento alle necessità individuali. Questo processo richiede di mediare aspetti economici sempre più complessi in un dialogo che deve essere virtuoso tra imprese private, con intrinseche logiche di profitto, e sistema sanitario pubblico. In anni recenti è enunciato l’intento almeno teorico, di porre il malato al centro dell’assistenza. Il criterio applicato da metà degli anni Novanta è quello dei raggruppamenti omogenei di diagnosi, meglio noto come DRG (diagnosis-related group), introdotto dal sistema assicurativo statunitense Medicare nei primi anni Ottanta.

Il sistema è la base per la valutazione dell’assorbimento di risorse nell’attività clinica ospedaliera ed è impiegato per il finanziamento prospettico degli ospedali. Un rischio del sistema è che gli enti sanitari si organizzino più in base alle tariffe maggiormente remunerative che alle necessità sanitarie della popolazione e l’impiego di tariffe uniformi può non coprire le spese per il trattamento di condizioni complesse, favorendo sistemi di cura più centrati sull’erogazione di prestazioni che sull’assistenza.

Più in generale, negli anni recenti vi è stata la trasformazione della figura formale e sostanziale degli ammalati che ricorrono ai servizi sanitari: da pazienti a clienti. Non sono più soltanto persone da curare, ma anche utenti con facoltà di scegliere fra diverse strutture messe in concorrenza.

Le aspettative sulle prestazioni sanitarie in un contesto così industrializzato sono quelle di un prodotto che deve soddisfare criteri di qualità e di efficacia. La tendenza non è però soltanto virtuosa. Dalla fine degli anni Sessanta a oggi si è molto ampliata la base di «evidenze» dalla ricerca clinica; le evidenze non sono però ricette utilizzabili in modo standardizzato per i problemi di salute individuali dei singoli ammalati. Il ragionamento clinico è sempre necessario per un uso appropriato delle indicazioni provenienti dalle evidenze, sia rispetto alle procedure diagnostiche sia rispetto alle scelte terapeutiche. Il clinico ha a che fare con i problemi di salute di singoli individui ammalati; la sua prospettiva di lavoro è dunque centrata sull’individualità.

Il medico negli anni recenti è stato così impegnato a operare su tre livelli: occuparsi del paziente come individuo ammalato, nella sua unicità, e impiegare i dati derivanti dalle conoscenze epidemiologiche e dalla medicina basata sulle evidenze nei grandi numeri come strumenti operativi per la diagnosi e la terapia, tenendo in considerazione i costi delle cure.

Il rischio di un’applicazione industriale della medicina è invece di standardizzare il trattamento dei pazienti, sostituendo l’attenzione alla loro individualità, che consiste in una relazione autentica e personale, con un insieme di tecniche comunicative standard, simili a quelle impiegate in ambito commerciale, ad esempio nei call center o nelle catene commerciali della grande distribuzione. Nella realtà i servizi che concorrono all’umanizzazione come quelli di psichiatria di consultazione, psicologia clinica, servizio sociale e cura pastorale operano in deficit oppure sono sostenuti economicamente da organizzazioni no-profit dato che la produzione di utili a livello economico non è la loro vocazione principale.

La pandemia ha mostrato le debolezze dell’avere il solo profitto come principio organizzatore dei sistemi di cura. Ciò che ha aiutato ad evitare la paralisi e il tracollo del sistema sanitario è stato lo sforzo individuale degli operatori sorretto dall’incoraggiamento reciproco mostrato dall’intera comunità verso quanti si sono sacrificati per alleviare le sofferenze. È emerso con grande forza come nelle situazioni limite le cure tecnologiche non siano sufficienti. Le attenzioni e una vicinanza da parte degli operatori si è mostrata in grado di confortare e sostenere le persone ammalate attraverso un conforto umano che in una prospettiva di fede, quindi di fiducia, offre una sempre nuova speranza.

La sfida per il futuro sarà cogliere il valore di queste potenzialità sprigionate in modo gratuito in emergenza e mantenere la considerazione anche nei tempi ordinari. Esistono peraltro già modelli che mettono al centro questi valori di attenzione ampia alla persona; tra gli altri ricordiamo certi contesti specialistici pediatrici e le cure palliative. Tra i punti di forza la capacità di prendersi carico della globalità della persona insieme alle persone care coinvolte, così come l’attenzione verso gli stessi operatori, il collegamento con il territorio, e la presenza di un’attenzione globale alla persona malata sin dal momento della diagnosi.

Il valore dell’attenzione alla persona sembra essere ancora vivo anche in percorsi di formazione dei professionisti improntati prevalentemente all’acquisizione di skill e competenze tecniche. A uno degli autori, docente in un corso universitario di comunicazione e relazione in medicina, durante un ricognizione delle motivazioni alla scelta della facoltà tra gli studenti ha potuto rilevare come la parte prevalente degli studenti riferisse di aver scelto la professione medica per aiutare le altre persone e giovare agli ammalati.

Mantenere e migliorare l’attenzione agli individui in una prospettiva che consideri non solo le esigenze terapeutiche strette ma anche il prendersi cura della persona come fattore cruciale dell’atto terapeutico necessita, però, di un approccio che sappia coniugare un attento studio dei dati improntato su nuovi paradigmi.

Un aspetto cruciale riguarda i criteri per la valutazione dell’efficacia economica degli interventi. Come dicevamo, durante l’epidemia Covid-19 è sfuggita a una quantificazione economica l’enorme sforzo volontario del personale della sanità nel far fronte all’emergenza sulla base di vocazione e valori indipendentemente da ogni considerazione economica.

Nel rinnovamento di prospettive che molti auspicano dopo la pandemia, è probabilmente necessario mantenere al centro della programmazione sanitaria non soltanto aspetti economici legati al costo / valore delle prestazioni in base a quanto tariffato ma considerare l’impatto di un’assistenza attenta anche, in modo non retorico, ai fattori umani in grado di incidere positivamente sulla qualità dell’assistenza. La sfida per gli anni a venire sarà quindi di realizzare una maggiore armonia e collaborazione fra gli attori interessati pubblici e privati alle questioni della sanità, mantenendo e migliorando l’attenzione agli individui in una prospettiva che consideri non solo le esigenze di curare la malattia ma anche di prendersi cura delle persone. In quest’ottica si pone l’esigenza di migliorare la collaborazione multidisciplinare in grado di attribuire valore alle pratiche di cura e assistenza a che non producono soltanto un valore economico diretto ma anche perfezionare e valorizzare aspetti di cura non quantificati fino ad oggi in modo appropriato con gli indicatori utilizzati ma che costituiscono componenti indispensabili di un buon processo di cura, efficace e ed attento ai bisogni umani.

Nel tempo varie ricerche hanno mostrato come l’attenzione a questi fattori comporti vantaggi come la riduzione di richieste inappropriate di cure e di accessi in pronto soccorso, una minore durata dei ricoveri, un minore uso di farmaci e una diminuzione del contenzioso. Esiste però ancora la necessità di sviluppare ricerche sull’efficacia dell’attenzione ai fattori umani, psicologici, sociali e spirituali che negli anni sono state condotte in Italia solo in modo limitato in un panorama come quello della ricerca universitaria che limita ancora gli studi multidisciplinari, a favore dei temi che rientrano esattamente nelle declaratorie dei settori scientifici disciplinari.

L’esperienza della pandemia rimanda anche un’ultima considerazione. Nell’attuale mondo globalizzato con interconnessioni sempre più rapide e frequenti, non solo attraverso le reti web, sorge la domanda su come poter gestire e diffondere le acquisizioni e possibilità anche in campo clinico sull’intero mondo. Sappiamo bene che con l’equivalente delle ordinarie prestazioni cliniche per curare una persona ammalata di una patologia grave si possono curare molte persone per patologie di minor importanza nel mondo economicamente ricco, in paesi lontani dai nostri. Fino a che punto siamo disposti a condividere le nostre scoperte in ambito sanitario con altri fratelli? Per contro, cosa possiamo raccogliere ed imparare da questi mondi fisicamente così lontani e tuttavia in grado probabilmente di aiutarci a non smarrire quegli aspetti in parte dimenticati, o messi da parte, legati alla dimensione umana che ricorda il nostro appartenere all’unica famiglia umana? Il rischio della morte da Covid-19 ci ha fatto ritrovare tutti ugualmente fragili, difesi solo da pratiche con radici arcaiche, come l’isolamento e la quarantena, in uso fin dall’epoca delle grandi pestilenze che ha riportato al centro la domanda sul senso del nostro vivere e della necessità di solidarietà e semplicità come possibili antidoti.

Ci sembrano sempre attuali le parole pronunciate da Aldo Moro nel 1944: “E adesso da dove ripartire? Ora dobbiamo percorrere una lunga e difficile strada: dobbiamo appunto ricostruire. Cominciamo da qui. Rimettiamoci tutti a fare con semplicità il nostro dovere. Chi ha da studiare, studi, Chi ha da insegnare, insegni. Chi ha da lavorare, lavori. Chi ha da combattere, combatta. Chi ha da fare della politica attiva, la faccia, con la stessa semplicità di cuore con la quale si fa ogni lavoro quotidiano”

* Tullio Proserpio è Cappellano Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori, Milano

** Carlo Alfredo Clerici è ricercatore presso Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia dell’Università degli Studi di Milano.

Gli autori sono redattori del sito www.curaspirituale.it dedicato a ricerca, dialogo e formazione sulla spiritualità nelle cure mediche.


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