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Giuseppe Bettoni: «Presidente Conte sul Terzo Settore bisogna passare dalle parole ai fatti»

«Dopo la prima fase di emergenza Coronavirus riconosciamo un impoverimento sempre più diffuso dagli effetti devastanti», dice padre Giuseppe Bettoni, presidente di Fondazione Archè. «Il grande assente in tutto questo tempo nei decreti è stato il terzo settore. Eppure, insieme al personale sanitario, è una delle forze più radicate sui territori e più impegnate nel contrasto all’emergenza. Chiederei al Presidente del Consiglio di coltivare davvero il dialogo con le risorse del Paese di cui il Terzo Settore, come lui ripete spesso, è il cuore. Un cuore forse più evocato che realmente coinvolto»

di Redazione

«Dopo la prima fase di emergenza Coronavirus riconosciamo un impoverimento sempre più diffuso», dice padre Giuseppe Bettoni, presidente di Fondazione Archè. «Confido che il governo provveda almeno alla liquidazione anticipata del 5 per mille del 2019: sarebbe una boccata d’ossigeno per mantenere alta la qualità dei nostri servizi. Più precisamente al Ministro della Salute vorrei dire di riprendere in mano il governo della salute del Paese per coordinare una medicina più radicata nei territori. Al ministero del welfare invece, vorrei chiedere di provvedere finalmente ai decreti della Riforma del terzo Settore. Infine al Presidente del Consiglio domanderei di coltivare davvero il dialogo con le risorse del Paese di cui il Terzo Settore, come lui ripete spesso, è il cuore. Un cuore forse più evocato che realmente coinvolto».

È partita ufficialmente la cosiddetta fase 2 della gestione della pandemia. Cosa percepite e registrate in Fondazione Arché in questa seconda fase?
Sicuramente riconosciamo un impoverimento sempre più diffuso. Dagli effetti devastanti. Basti pensare che in pochi giorni i pacchi alimentari che i nostri volontari consegnano alle persone in difficoltà sono passati da 130 a oltre 300: le richieste sono più che raddoppiate. Solo nel quartiere di Quarto Oggiaro siamo passati dai 110 nuclei presi in carico a 192: parliamo di più di 700 persone.

Questo da un punto di vista essenzialmente materiale. Da un punto di vista invece, relazionale, della vita di ciascuno di noi all’interno di una comunità più estesa, com’è cambiata la situazione?
È facile percepire un senso di smarrimento, dovuto non tanto alla minaccia con cui dobbiamo abituarci a convivere quanto alla mancanza di una visione per il futuro: l’orizzonte temporale di ciascuno e della società nel suo complesso sembra essersi ridotto al quotidiano. Mancano davvero delle prospettive di futuro.

L’altro lato della medaglia di questo cambiamento però, è anche una riscoperta del quotidiano. Non trova che nello stare in casa abbiamo imparato a apprezzare quelle piccole cose che prima davamo per scontate?
È quasi banale parlare dei cambiamenti che stiamo vivendo e che ci hanno portato a modificare alcune di quelle abitudini che ritenevamo inalienabili. Mi chiedo però, se non sia possibile mantenerli anche dopo l’emergenza: per dare più tempo alla lettura, alla famiglia, per auspicare un’economia che sia a servizio dell’uomo e rispettosa dell’ambiente. Visto che siamo riusciti a fare a meno di tante cose inutili, perché non potremmo assumere questi comportamenti come un’abitudine virtuosa?

Se questo discorso può valere per gli adulti, diverso è il caso dei i bambini per i quali la fase 2 significa ancora chiusura delle scuole e limitata vita sociale. Per il presidente di una Fondazione, come Arché, che di bambini ne accoglie e affianca tanti, cosa ha significato questo periodo? Quali sono gli effetti più evidenti della “quarantena” sui più piccoli?
Dopo due mesi e più registriamo anche nelle nostre comunità – che comunque sono un luogo privilegiato perché ci sono spazi ampi, relazioni multiple, educatori dedicati e preparati professionalmente – sintomi regressivi tra i bambini (enuresi notturna, instabilità d’umore, manifestazioni d’insicurezza…). Eppure nei famigerati DPCM non c’è mai un’attenzione specifica a loro. Manca una visione, siamo ancora in piena gestione emergenziale, e la situazione sta diventando insostenibile se non si danno prospettive di lungo termine e tappe di ripresa che tengano in considerazione non solo l’aspetto economico e produttivo (peraltro importantissimo), ma anche quello psico-sociale. Se la rapidità e la pervasività della pandemia hanno obbligato ciascuno di noi adulti a confrontarsi con la propria fragilità individuale possiamo ben immaginare i bambini. Ora che i genitori possono tornare al lavoro, che ne sarà di loro? I nonni, laddove sono presenti? Comprendiamo così come la scuola, così bistrattata, sia di fatto centrale nel sistema Paese e forse meriti qualche investimento in più.

Insieme ai bambini, un’altra grande amnesia ha riguardato le realtà del terzo settore. Qual è stato l’impatto del Covid-19?
Sì, è innegabile che il grande assente in tutto questo tempo nei decreti sia stato proprio il terzo settore. Eppure, insieme al personale sanitario, è una delle forze più radicate sui territori e più impegnate nel contrasto all’emergenza. Le varie realtà del settore hanno tenuto in piedi servizi e strutture con grande senso di responsabilità, a costo di grandi sacrifici e… lasciatemelo dire, in pressoché totale solitudine. Nel mio piccolo, posso dire di essere diventato davvero matto a cercare i DPI (le mascherine, i calzari, i guanti) per gli educatori e le educatrici.

Non è stato un periodo facile per nessuno. Ma Arché è riuscita a mantenere attivi, modificandoli e adattandoli, i suoi servizi. Come avete fatto?
Non nascondo lo stress e la fatica di portare una responsabilità emergenziale così grande per lungo tempo, sono stanco. La forza è venuta da tutti quegli operatori che con grande disponibilità e generosità non sono venuti meno. Certo abbiamo avuto anche noi educatori che, presi dalla paura dell’infezione, sono scappati, lasciando i colleghi in gravi difficoltà. Ma era prevedibile. A fronte di questi pochi casi, però, devo sottolineare la grande disponibilità della maggioranza degli educatori, appassionati, intelligenti e davvero in gamba. Se potessi, darei loro il doppio dello stipendio per questi mesi! E ancora non sarebbe sufficiente per dire grazie. Almeno abbiamo messo a disposizione un servizio di sostegno psicologico e morale grazie alla nostra psicoterapeuta Elena Giovanardi che, seppure a distanza, ha aiutato a mantenere momenti di incontro e supervisione.

Per invertire la tendenza, cosa si sente di chiedere al governo?
Certo il sostegno economico conosce gravi battute d’arresto. Le donazioni si sono ampiamente ridotte e alla lunga questa tendenza potrebbe diventare insostenibile, ma confido che il governo provveda almeno alla liquidazione anticipata del 5 per mille del 2019: sarebbe una boccata d’ossigeno per mantenere alta la qualità dei nostri servizi. Più precisamente al Ministro della Salute vorrei dire di riprendere in mano il governo della salute del Paese per coordinare una medicina più radicata nei territori. Al ministero del welfare invece, vorrei chiedere di provvedere finalmente ai decreti della Riforma del terzo Settore. Infine al Presidente del Consiglio domanderei di coltivare davvero il dialogo con le risorse del Paese di cui il Terzo Settore, come lui ripete spesso, è il cuore. Un cuore forse più evocato che realmente coinvolto.