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Cooperazione & Relazioni internazionali

L’isolamento forzato dei Rohingya in tempi di pandemia

Secondo un progetto sviluppato dalla Marina del Bangladesh l’isola di Bashan Char dovrebbe diventare un’area pronta ad ospitare 100.000 rifugiati Rohingya provenienti dai salvataggi in mare e dai campi. Di fatto si tratterebbe di una forma di isolamento forzato sul territorio di un’isola nella quale le Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali non hanno alcun accesso

di Regina Catrambone

La pandemia globale che negli ultimi mesi ha colpito tutte le regioni del mondo e nella quale, all’improvviso, siamo stati proiettati, ha sconvolto quotidianità e abitudini di miliardi di persone. Accanto alle nostre vite ci sono anche quelle delle comunità più vulnerabili, come i rifugiati, gli sfollati interni, chi disperatamente cerca di fuggire e chi si trova in un’area di conflitto. A causa dell’adozione delle misure di contenimento per la diffusione del virus, queste persone si trovano oggi a fronteggiare ulteriori difficoltà, come la chiusura delle frontiere, l’interruzione delle operazioni di ricerca e salvataggio e l’impossibilità di mantenere il distanziamento sociale all’interno dei campi sovraffollati.

Tra le comunità di rifugiati più vulnerabili del mondo quella dei Rohingya occupa un posto particolare. Da quando abbiamo avviato le nostre operazioni in Bangladesh siamo stati testimoni diretti delle disperate condizioni degli attraversamenti dal Myanmar agli Stati circostanti e delle atroci violenze che questa popolazione subisce all’interno del Paese nel quale la propria identità non viene riconosciuta.

Da ottobre 2015 a maggio 2016 Moas è stata la prima OnG a condurre una missione di monitoraggio nel Mare delle Andamane, una rotta nella quale un elevato numero di Rohingya, in fuga dal Myanmar, ha perso la vita a causa delle pericolose condizioni della traversata e della mancanza di cibo e acqua dopo settimane in mare in attesa di un porto in cui sbarcare. Durante questa missione ci siamo impegnati a stabilire uno stretto contatto con partner in Bangladesh, Myanmar, Malesia, Thailandia, India e Indonesia con il proposito di mettere in pratica una condivisione delle informazioni relative all’area SAR del sud-est asiatico. Nel mese di aprile del 2018, a seguito dell’escalation di violenze perpetrate sui Rohingya nell’estate del 2017, Moas ha avviato una seconda missione di monitoraggio e osservazione con la nave M/Y Phoenix. Nel corso della missione abbiamo percorso oltre 2.674 miglia nautiche e cinque diverse aree SAR nazionali, incrementando la nostra conoscenza in merito alla situazione del Mare delle Andamane. Sin dalla prima missione Moas ha rivolto numerosi appelli alla comunità e alle organizzazioni internazionali governative e non al fine di istituire una missione marittima indipendente nel Mare delle Andamane e di avviare un dialogo tra i Paesi dell’area affinché il Myanmar riconosca il diritto alla cittadinanza dei Rohingya e ponga fine alle violenze inumane su bambini, donne e uomini.

Tra i 135 gruppi etnici presenti nel Myanmar, infatti, ai Rohingya non viene riconosciuta alcuna cittadinanza e questa condizione di apolidia li rende particolarmente vulnerabili. Una situazione che, nonostante la decisione dello scorso mese di gennaio della Corte internazionale di giustizia dell’Aia di ordinare al Myanmar di introdurre delle azioni per evitare che i Rohingya subiscano violenze, continua a perpetrarsi e che è peggiorata dallo scoppio della pandemia.

Nell’ultimo mese, infatti, si è assistito a una crescita dell’esodo dei Rohingya in fuga dal Myanmar e dai campi del Bangladesh. Nel golfo del Bengala e nel Mare delle Andamane numerose imbarcazioni trasportano i rifugiati in condizioni disperate. Mentre la Malesia, la Thailandia, l’India e l’Indonesia chiudono i propri porti e interrompono le operazioni di salvataggio, sulle imbarcazioni dei Rohingya, che rimangono bloccate al largo per settimane, si rischia di morire di stenti a causa delle limitate scorte di acqua e cibo, richiamando alla memoria i drammatici ricordi delle ghost boat del 2015. Il Bangladesh, intanto, dopo aver effettuato una serie di salvataggi nelle acque internazionali, ha dichiarato che i Rohingya soccorsi non verranno ospitati nei campi profughi di Cox’s Bazar ma verranno trasferiti a Bhashan Char a Noakhali. La stampa locale conferma che in questi giorni avrebbero fatto ingresso sull’isola i primi 300 rifugiati. Secondo un progetto sviluppato dalla Marina del Bangladesh l’isola di Bashan Char dovrebbe diventare un’area pronta ad ospitare 100.000 rifugiati Rohingya provenienti dai salvataggi in mare e dai campi. Di fatto si tratterebbe di una forma di isolamento forzato sul territorio di un’isola nella quale le Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali non hanno alcun accesso, con il rischio di non assicurare quei diritti minimi che in questo momento vengono tutelati nei campi profughi di Cox’s Bazar.

L’Unhcr, l'Oim e l'Unodc, hanno lanciato un appello affinché tutti i Paesi dell’Asean possano unirsi per mantenere gli impegni assunti con la Dichiarazione di Bali e per assicurare il rispetto dei diritti fondamentali e delle convenzioni internazionali nonostante le difficoltà sopraggiunte con l’esplosione della pandemia di Covid-19.

Moas dal 2015 invita a una collaborazione regionale che, quando la tempesta del coronavirus si sarà placata, non potrà smettere di impegnarsi affinché venga raggiunta l’unica vera possibile soluzione per questa drammatica situazione: il riconoscimento da parte del Myanmar della nazionalità dei Rohingya e il loro conseguente rientro assicurando la continua assistenza da parte delle organizzazioni internazionali

*Regina Catrambone, co-fondatrice e direttrice di Moas


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