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L’occasione per ripensare il futuro della scuola è adesso

Il can can attorno agli studenti che non sono imbuti e la contrapposizione ostentata fra tradizione e innovazione o tra fan della didattica a distanza o fan della presenza. Nulla di tutto ciò è utile alla scuola. La verità è che serve un riconoscere le ragioni dell'altro e convergere sul fatto che né la dad né la scuola di prima possono - da sole - rispondere alla sfida delle competenze.

di Massimo Iiritano

Fuor di metafora e al netto di ogni possibile e umanissimo errore di citazione, Massimo Cacciari, nel corso dell’ultima puntata di Parole con Gramellini, ha saputo rispondere badando alla sostanza del ragionamento e sfuggendo così la facile esca del conduttore… «La ministra ha ragione», ha detto il filosofo che aveva da poco firmato un appello contro l’eccessivo uso del modello della didattica a distanza portato avanti dal ministero in questi mesi di emergenza.

Ebbene sì, la filosofia, come si diceva qualche giorno fa in una conversazione con Walter Veltroni, è essenzialmente questo: la capacità di riconoscere anche e soprattutto le ragioni altrui, mettendo quando necessario da parte le nostre. Lezione di filosofia, quindi. E di cittadinanza. Perché dire “anche questo è vero”, “hai ragione tu”, appartiene al lessico fondamentale di ogni “filosofia civile”, pilastro unico e insostituibile, questo sì, della nostra civiltà.

Ha quindi ragione la ministra, riconosce Cacciari, nel sottolineare – come del resto avviene nello stesso appello da lui lanciato – la differenza tra “educazione” ed “istruzione”, con buona pace di quella metafora dell’imbuto che tanto (forse troppo) ha fatto rumore in questi giorni, nascondendo la sostanza della questione. Ed è qui che l’appello degli intellettuali si incontra appunto con quelle che da tempo sono ormai le linee guida del ministero, laddove al posto della parola “programmi” “nozioni” “istruzione”, sono scritte a chiare lettere le parole”competenze” “educazione” “cittadinanza”. Ed è proprio alle competenze che richiamava Cacciari nel dialogo con Gramellini: questa parola magica che sembra essere una sorta di “ospite” indesiderato delle nostre “programmazioni” e che invece avrebbe dovuto essere già da un po’ al centro del nostro impegno di educatori. Per educare alle competenze non può certo bastare la didattica a distanza; ma al tempo stesso neanche la “scuola tradizionale” può certo bastare.

Ma qual è la “tradizione” alla quale ci stiamo “rivolgendo”? Certo non quella alla quale guardano gli intellettuali firmatari del suddetto appello, non quella della “scholè” come tempo liberato, per pensare con la propria testa, per interrogarsi sul proprio vissuto e da lì far emergere (e-ducere) quelle che sono le nostre competenze e i nostri talenti: protagonisti attivi di un apprendimento che si fa percorso avventuroso e affascinante di scoperta di sé e del mondo che ci circonda.

Ecco come, in quella che è stata descritta superficialmente come una mera “opposizione”, uno scontro tra tradizione e innovazione, tra presenza e “digitale”, possiamo riconoscere piuttosto questa convergenza sostanziale. Emerge infatti lo stesso richiamo alla necessità di una visione complessiva di senso e direzione, nella quale ripensare “gli statuti epistemologici delle discipline” e le modalità del loro apprendimento. Una visione in cui rientra naturalmente anche il digitale: riprendendo il suo posto necessario, come sottolinea la ministra, ma certamente mai esclusivo e mai in nessun modo “sostituitivo”, se non per emergenza, della didattica in presenza.

Siamo dunque giunti, almeno in questo versante, ad un momento che potrebbe e dovrà essere decisivo per il futuro della nostra scuola. In cui l’emergenza sanitaria ci costringe finalmente, una volta usciti dalla chiusura ossessiva e insostenibile ormai di questi mesi, a ripensare un modello “ideologico”, per utilizzare ancora le parole di Cacciari, che evidentemente non era ancora abbastanza chiaro e che soprattutto non aveva ancora trovato chiara espressione nella didattica quotidiana.

Ci costringe soprattutto a dover ripensare la “classe”, intesa come “aula”, come uno dei luoghi e dei modi possibili per l’apprendimento, non certo il suo luogo unico ed esclusivo. La scholè di ellenica memoria potrebbe allora ripresentarsi sotto il nome nuovo, inevitabilmente anglosassone, di “outdoor education”: in cui lo spazio dell’apprendimento si fa esperienza dei luoghi, diviene dinamico e aperto. Educazione come esperienza appunto. Un “ritorno al futuro” nel quale tutti noi operatori della scuola, prima degli intellettuali e degli accademici e sicuramente meglio di loro, dovremmo avere il coraggio di “sporcarci le mani”: di metterci finalmente in discussione, aprendo brecce e spiragli di luce alle nostre comode corazze, alla nostra quotidiana tentazione di rifugiarci, come ci diceva già Pennac, dietro quella “lezione frontale” di cui “la cattedra” è simbolo.

Massimo Iiritano insegna all’IIS Guarasci-Calabretta di Soverato ed è presidente dell’associazione Amica Sofia

Photo by Deleece Cook on Unsplash


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