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Perché non riusciamo a garantire una casa per tutti?

La cosa che balza subito all’occhio è che la gran parte delle abitazioni in Italia, circa 7 su 10, sono case di proprietà. Siamo tra i paesi europei in cui questa quota è più alta. È un problema? Sì, perché questa situazione crea un mercato poco dinamico, in cui le abitazioni in affitto sono poche e, generalmente, care. Certo, con enormi differenze territoriali tra zone d’Italia e, soprattutto, tra grandi città – Roma e Milano su tutte – e piccoli paesi

di Fabio Colombo

L’emergenza coronavirus ha esacerbato molte situazioni e molti problemi. Una di queste è certamente quella della casa. Le persone senza dimora, che una casa non ce l’hanno, sono state impossibilitate a rispettare l’ordine di “stare a casa” e si sono dovute arrangiare come possibile, nelle strutture di prima accoglienza o in strada. Anche tra chi una casa ce l’ha, le differenze sono state enormi. Stare reclusi per due mesi in un monolocale sovraffollato non è la stessa cosa che starci in una casa ampia e luminosa. Avere un lavoro stabile fa anche qui la differenza. “Molte persone che lavoravano in nero hanno perso il reddito da un giorno all’altro senza avere accesso agli ammortizzatori, e presto perderanno anche la casa.”, riporta Alfio Di Mambro, responsabile Area Prossimità di Arché. “La casa è qualcosa di istintuale e profondo, anche per gli animali.”, prosegue Alfio, antropologo di formazione. Eppure questo bisogno ancestrale non è soddisfatto per tutti e non è certo responsabilità del coronavirus. Come mai? Perché non riusciamo a garantire una casa a tutti? Eppure costituzioni, leggi, trattati sono chiari: la casa è un diritto. Il problema però è che è un diritto costosissimo da garantire. E infatti nessun paese al mondo ci riesce davvero. Certo, qualcuno ci riesce meglio di altri. Ma il problema di dare una casa a tutti è di difficile soluzione, almeno dentro il sistema economico in cui viviamo.

Come siamo messi in Italia?
La cosa che balza subito all’occhio è che la gran parte delle abitazioni in Italia, circa 7 su 10, sono case di proprietà. Siamo tra i paesi europei in cui questa quota è più alta. È un problema? Sì, perché questa situazione crea un mercato poco dinamico, in cui le abitazioni in affitto sono poche e, generalmente, care. Certo, con enormi differenze territoriali tra zone d’Italia e, soprattutto, tra grandi città – Roma e Milano su tutte – e piccoli paesi.

Altra caratteristica è la bassissima quota di edilizia sociale, quindi di abitazioni utilizzate per scopi sociali, anche note come case popolari. Le case popolari in Italia sono circa 700 mila, un misero 3-5% del mercato abitativo. Ancora una volta, siamo agli ultimi posti in Europa, anche se le differenze territoriali sono ampie (ad esempio la quota è del 10% a Milano). Restano quindi fuori molte famiglie che avrebbero diritto ad accedere ad un alloggio sociale, oltre a molte altre che hanno redditi medio-bassi, ma non abbastanza bassi per entrare nelle graduatorie. La caratteristica con cui potremmo riassumere l’essenza del sistema abitativo italiano è che l’accesso alla casa passa in gran parte dalla famiglia: si ereditano case in proprietà, si acquista casa con il mutuo pagato e garantito dai genitori, si affitta con le garanzie date dai genitori ai proprietari. E chi non si può appoggiare alla famiglia? Beh, ha vita difficile nel contesto abitativo italiano. A maggior ragione se proviene da storie o condizioni sociali particolari, per cui può cadere vittima di discriminazioni o ulteriori difficoltà. È il caso delle famiglie straniere, che già partono svantaggiate perché hanno spesso redditi bassi e nessuno che può garantire per loro, e che rischiano forme più o meno esplicite di razzismo.

Anche le madri sole con minori hanno grande difficoltà, soprattutto in caso di violenza: “avevano la casa e magari anche un lavoro ma per sfuggire alla violenza devono abbandonare tutto; e senza supporto pagare un affitto diventa impossibile.” racconta Silvia Carameli, assistente sociale e responsabile Area Housing Sociale di Arché.

Che fare quindi?
Gli studiosi di politiche abitative sono concordi nel dire che l’edilizia pubblica è la migliore risposta alla crisi abitativa. Dove lo Stato investe di più per costruire e gestire alloggi pubblici, minore è l’emergenza abitativa. La soluzione di massicci investimenti pubblici per costruire e gestire alloggi appare però poco realistica. Il problema abitativo, soprattutto nelle città, è di difficile soluzione. Le dinamiche del mercato sono, in questo campo più che in altri, impietose. Dove c’è più domanda (le città), prezzi e affitti salgono. Una misura interessante è quella di supportare i proprietari, attraverso un sistema di garanzie pubbliche per coloro che affittano a persone e famiglie in condizioni socio-economiche non stabili. Questo sistema può essere decisivo per convincere i proprietari a correre il rischio di affittare a qualcuno che non può dimostrare stabilità economica. C’è poi una galassia di soluzioni, ancora marginali e frammentate ma in crescita, che rientrano sotto l’etichetta di housing sociale. Si tratta di interventi, solitamente messi in campo da enti del terzo settore, che rispondono ai bisogni di chi non riesce ad accedere all’edilizia sociale, ma ha comunque grandi difficoltà a misurarsi con il mercato immobiliare, per ragioni economiche e/o sociali.

Housing sociale: l’esperienza di Milano
L’esperienza di Milano è in questo senso molto interessante. Il Comune di Milano riserva una quota delle abitazioni di proprietà di ALER (l’azienda pubblica che gestisce le case popolari del capoluogo lombardo) per la cosiddetta residenzialità sociale temporanea (RST). In pratica gli alloggi vengono affidati, tramite bando, alla gestione di enti del terzo settore che accolgono e accompagnano persone e famiglie in difficoltà per un massimo di 18 mesi. Arché ha in gestione 7 di questi appartamenti, oltre ad altri 3 provenienti da altri canali. Il punto di forza di questa modalità di gestione è il supporto socio-educativo che viene fornito alle famiglie. “Questo supporto non c’è nell’accesso tradizionale alle case popolari, e risulta decisivo per l’inclusione sociale, scolastica e lavorativa delle famiglie”, conferma Silvia Carameli. Il requisito richiesto è che le persone abbiano avanzato richiesta per una casa popolare e abbiano un reddito anche minimo. In questo modo durante i 18 mesi si può lavorare affinché al termine degli stessi le persone riescano ad accedere ad una casa popolare e a migliorare la propria condizione sociale e lavorativa. Arché accoglie soprattutto nuclei e famiglie monoparentali con fragilità, anche nel nuovo progetto della Corte di Quarto. Qui i nuclei inviati dai servizi sociali trascorrono un periodo in un appartamento supportati da educatrici che accompagnano all’autonomia in un ambiente misto, dove sono presenti anche persone e famiglie che hanno scelto di vivere nella Corte e donano parte del loro tempo al supporto informale delle famiglie. Si tratta di un percorso dove vengono accolte famiglie che non devono necessariamente avere i requisiti richiesti dall’RST (reddito minimo e aver fatto richiesta per una casa popolare), e che possono maturare nel frattempo quei requisiti. Una capacità di creare una “filiera della casa” che può risultare vincente nel supportare in maniera personalizzata i bisogni abitativi e sociali che affrontano persone e famiglie in fasi diverse del loro percorso.

Housing sociale: la situazione a Roma
“Purtroppo a Roma la situazione è molto diversa – spiega Alfio Di Mambro – qui manca un progetto come quello del Comune di Milano, e ce ne sarebbe un gran bisogno.”. Con i suoi servizi di prossimità, Arché garantisce assistenza domiciliare a famiglie in difficoltà anche estrema, ma mancando il tassello pubblico trovare soluzioni abitative accessibili diventa un rebus. “Bisogna superare l’idea che la casa popolare sia assegnata per sempre e pure per le generazioni future.”, chiosa il responsabile dell’Area Prossimità di Arché. “Dobbiamo andare verso modelli di promozione dell’autonomia, dove l’edilizia pubblica sia concepita come un passaggio transitorio con accompagnamento socio-educativo, in modo che si possa rispondere meglio ai bisogni delle famiglie.”. L’edilizia pubblica altrimenti diventa un ghetto abbandonato e inaccessibile. Come conseguenza, le occupazioni proliferano, ma si finisce a vivere in un’eterna precarietà, oltre che in situazioni igieniche a volte molto complicate. Fornire assistenza domiciliare in abitazioni occupate è spesso impossibile. “Con alcune famiglie siamo arrivati al paradosso di fornire assistenza domiciliare in strada, o in biblioteca, perché non potevamo accedere alla casa”, testimonia Alfio Di Mambro. Insomma una situazione, quella romana, in cui si cerca di mettere pezze a un sistema che più che in altri contesti sembra difficile da riformare in maniera strutturale.

La questione abitativa è di difficile soluzione, ovunque. Ci sono però contesti territoriali molto diversi; in alcuni casi si sperimentano soluzioni, certo insufficienti, che però fanno intravvedere una progettualità, soprattutto là dove vi è un attivismo da parte dell’ente pubblico. In altri casi non si riscontra nemmeno questo, e davvero pensare un giorno di poter garantire una casa a tutti sembra un’utopia. Certo, la chiave di considerare il disagio abitativo come parte di un disagio multidimensionale sembra essere la più promettente. Là dove si fornisce un supporto socio-educativo, oltre ad un alloggio, le persone e le famiglie hanno più possibilità di sviluppare percorsi di autonomia, anche abitativa. Non dimentichiamo, infatti, che il modo più “semplice” di facilitare l’accesso alla casa è quello di garantire alle persone un reddito, un lavoro e una piena inclusione sociale.

*Fabio Colombo ha realizzato questo articolo per Fondazione Arché nell'ambito della collaborazione della fondazione con il blog collettivo Le Nius nato dalla volontà di proporre approfondimenti su temi protagonisti del dibattito pubblico.


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