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Ma la scuola non può ignorare il “non detto” del plexiglass

La pedagogista Monica Guerra immagina la scuola che verrà: sperimentale, in dialogo, aperta al territorio ma non "svaporata". Per lei una nuova grande stagione con i "bambini al centro" è «a un passo dall'accadere». Ma ricorda: «Nessuna scelta è neutra dal punto di vista pedagogico: il plexiglass per esempio, dal punto di vista della sicurezza sanitaria può forse essere funzionale, ma cosa veicola ai bambini? La risposta non sia “la cosa migliore per me è stare separato dagli altri”».

di Sara De Carli

Bambini al centro. È possibile, oggi, dentro questa grande crisi? Oppure è solo utopia? O retorica? «Io credo che debba succedere, anzi che siamo a un passo da che possa succedere. Le famiglie in questo momento hanno giustamente un’attenzione altissima sulla scuola e sui servizi educativi, insegnanti e educatori premono per avere voce in capitolo e per tornare a fare il proprio lavoro nel migliore dei modi possibili, i bambini chiedono di tornare a scuola perché hanno bisogno come l’aria di stare con altri bambini, in luoghi pensati per loro. Non credo si potrà evitare di riprendere in mano il tema dell’educazione in modo serio e organico: se vogliamo che il Paese riparta i bambini non possono rimanere un fatto privato, che riguarda solo le loro famiglie, ma devono diventare definitivamente parte di un pensiero collettivo».

Nei giorni caldissimi in cui, dopo le indicazioni del CTS, attendiamo di conoscere i suggerimenti della task force ministeriale per la riapertura delle scuole e le decisioni della ministra Azzolina, Monica Guerra – ricercatrice e pedagogista del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – prova ad allargare l’orizzonte. E ci ricorda come accanto alle misure per la sicurezza, i cm di distanza e i DPI, dovremmo «chiederci continuamente che modello pedagogico stiamo veicolando con ciascuna decisione o ipotesi di soluzione».

Il plexiglas per esempio, di cui oggi si parla con insistenza: «è una scelta che dal punto di vista della sicurezza sanitaria può forse essere funzionale, ma occorre chiedersi cosa veicola ai bambini, soprattutto a quelli più piccoli. Dobbiamo fare in modo che la risposta non sia che “la cosa migliore per me è stare separato dagli altri”. Nessuna scelta è neutra dal punto di vista pedagogico: se si scelgono soluzioni di distanziamento, occorre essere consapevoli dei messaggi impliciti e accompagnare i bambini in una elaborazione, mettendo l’accento sul prendersi cura di se stessi e dell’altro più che sulla paura dell’altro».

Ieri intanto, finalmente, a Palazzo Chigi hanno messo intorno al tavolo più di 50 persone per discutere della scuola e sulla sua ripresa di settembre. «L'obiettivo è portare tutti a scuola in presenza. Con particolare attenzione ai più piccoli, che hanno sofferto maggiormente in questo periodo», ha detto la ministra Azzolina. «Siamo tutti d'accordo che l'obiettivo di riapertura a settembre è complesso, ma raggiungibile se lavoriamo tutti insieme, ciascuno per la propria parte: il Paese si aspetta da noi che i ragazzi a settembre tornino a scuola». Sulla scuola il Governo «sta mobilitando risorse per 4 miliardi», ha aggiunto la ministra e ci sarà anche un nuovo stanziamento di 330 milioni per l’edilizia scolastica leggera.

Cosa dobbiamo mettere in conto, tornando a scuola?
Il carattere di sperimentazione che la scuola dovrebbe avere. In un quadro che si modifica continuamente, tutte le proposte e le soluzioni attuate dovrebbero essere considerate in divenire, perché la loro applicazione avverrà nel tempo e il tempo sarà inevitabilmente mutevole. Sperimentazione però non come esperimento, una serie di tentativi, ma la dimensione tipica della ricerca, che è anche quella di chi fa scuola: il continuare a interrogarsi su ciò che si sta proponendo e a verificare se sta funzionando. Sperimentazione in questo senso è tenere conto della cornice e del contesto, provare a mettere in atto strategie coerenti in risposta e monitorarne gli esiti nel breve e nel medio tempo per vedere se sono funzionali. Credo dovremmo metterci nell’ottica che le soluzioni che troveremo e che decideremo di attuare non potranno essere considerate definitive. In realtà, in educazione e nella scuola non dovrebbero essere mai definitive, perché quando l’educazione diventa statica smette di guardare davvero le persone cui si rivolge: per questo credo dovremmo riportare la scuola a una modalità di sperimentazione permanente, accettando la necessità di stare in dialogo continuo con ciò che accade, con quelli che incontriamo, con i momenti quotidiani e quelli straordinari, che naturalmente non vuol dire non avere punti fermi.

La scuola dovrebbe entrare in un'ottica di sperimentazione permanente. Sperimentazione non come esperimento, serie di tentativi, ma come dimensione tipica della ricerca, che è anche quella di chi fa scuola: il continuare a interrogarsi su ciò che si sta proponendo e a verificare se sta funzionando. In realtà, quando l’educazione diventa statica smette di guardare davvero le persone cui si rivolge

Monica Guerra

E ne abbiamo almeno qualcuno?
Li abbiamo già, certo. La scuola in questi mesi sta mettendo a fuoco quali sono le cose più importanti, quelle su cui investire. Questi mesi, ad esempio, ci hanno mostrato che un elemento che fa la differenza è il tipo di relazione educativa e di apprendimento che si riesce a instaurare. La Didattica a distanza – o i LEAD, legami educativi a distanza per i più piccoli – ha funzionato quando è stata capace di guardare in faccia e ascoltare i bambini e i ragazzi a cui si stava rivolgendo. Qualunque sapere è pedagogicamente co-costruito, non si tratta mai solo di trasmissione di informazioni e neppure di contenuti, ma di un dialogo intorno a quei contenuti, in modo da accompagnare i bambini e i ragazzi ad appropriarsi della cultura del proprio ambiente di appartenenza, che oggi è sempre più globale, e padroneggiarla. Questi mesi hanno mostrato alcune delle grandi criticità della scuola, perché anche come genitori è stato possibile percepire la differenza tra una video-lezione senza confronto e lezioni dialogate con momenti di discussione che coinvolgevano i bambini e i ragazzi. Ancora, avere un insegnante che apriva gli incontri chiedendo ai bambini e ragazzi “Come state?”, ha fatto la differenza. Ecco, basta questo esempio per realizzare che ora abbiamo una grande occasione per ripensare una didattica sempre più in ascolto e in dialogo e che questa è una condizione, un punto fermo fondamentale.

Lei ha detto che «la scuola deve aprire con cognizione, ma non a qualunque condizione». Cioè?
La forma che daremo all’esperienza educativa rappresenterà un modello implicito e i modelli impliciti sono quelli più potenti e impattanti. Non è solo con le parole che passiamo un’idea, ma innanzitutto con ciò che facciamo. Occorre ad esempio pensare modi che permettano di stare insieme nel rispetto reciproco, trasmettendo l’idea che le attenzioni che avremo sono un modo per prendersi cura dell’altro e di se stessi e non lo specchio di una paura dell’altro. Una scelta come quella di dividere i bambini con del plexiglas, ad esempio, è una scelta che dal punto di vista della sicurezza sanitaria può forse essere funzionale, ma occorre chiedersi cosa veicola ai bambini, soprattutto a quelli più piccoli. Dobbiamo fare in modo che la risposta non sia che la cosa migliore è stare separati dagli altri. Le scelte che metteremo in campo per garantire legittimamente la sicurezza di tutti potranno influenzare il modo in cui ci rappresenteremo le relazioni: nell’esempio citato, non solo a distanza, ma con un muro trasparente a separarci dagli altri. Ogni scelta, anche quelle rispetto agli spazi e all’organizzazione, non è mai neutra dal punto di vista pedagogico: se si scelgono soluzioni di distanziamento, occorre essere consapevoli dei messaggi impliciti e accompagnare i bambini in una elaborazione, in questo caso mettendo l’accento sul prendersi cura di se stessi e dell’altro più che sulla paura dell’altro. Per questo ritengo importante che, per ogni soluzione possibile, si valutino non solo gli aspetti di sicurezza e organizzazione, ma anche quelli educativi. Ancora, più i bambini sono piccoli e più hanno bisogno della relazione con l’altro per giocare e per apprendere: sarà allora importante privilegiare la stabilità dei gruppi di bambini, in modo che il divieto di avvicinarsi possa essere smussato, perché chiedere di giocare stando a distanza – oltre alla difficile realizzazione – veicola dei messaggi. Oppure, come si può consolare un bambino senza avvicinarsi? Occorre considerare l’importanza della sicurezza fisica, ma anche della sicurezza relazionale, emotiva, cognitiva, che dobbiamo mettere a tema nelle discussioni e che oggi ancora non c’è tantissimo, forse perché siamo ancora immersi nella paura. Ecco, mi pare che, rispetto ad ogni soluzione che intravediamo, occorra discutere con attenzione e insieme gli aspetti di sicurezza sanitaria, di riorganizzazione e quelli educativi.

Occorre pensare modi che permettano di stare insieme nel rispetto reciproco, trasmettendo l’idea che le attenzioni che avremo sono un modo per prendersi cura dell’altro e di se stessi e non lo specchio di una paura dell’altro. Una scelta come quella di dividere i bambini con del plexiglas, ad esempio, è una scelta che dal punto di vista della sicurezza sanitaria può forse essere funzionale, ma occorre chiedersi cosa veicola ai bambini, soprattutto a quelli più piccoli

I bimbi piccolissimi, fra gli 0 e i 3 anni, sono fra i più penalizzati.
La scarsa attenzione per i servizi per l’infanzia è purtroppo sovente una costante, sia in termini di risorse che di pensiero politico, seppur abbiamo leggi e documenti di orientamento bellissimi, densi, in alcuni passaggi lungimiranti. Il problema è che poi c’è poco accompagnamento affinché ciò che è scritto nelle leggi e nei documenti possa diventare parte della professionalità diffusa degli insegnanti: in questo modo si corre il rischio che non diventi patrimonio di tutti perché non ci sono adeguati investimenti, a partire da quelli sulla formazione, in grado di aiutare ad incarnarli. In questo senso il sistema sta mostrando tutta la sua fragilità. Mentre parliamo non sappiamo esattamente quando saremo pronti per riaprire i servizi per i piccolissimi, ma sarebbe importante che ci fossero ragionamenti seri sul tema, perché non può essere che i bambini fra 0 e 3 anni compaiano solo nei parchi pubblici. Dobbiamo incominciare a chiederci cosa ci stiamo immaginando per loro, invece se ne parla sempre troppo poco. È questo, per me, il vero indice di preoccupazione.

L’ultima grande stagione con i bambini al centro, in Italia è stata quella della 285. Pensa davvero che sia possibile oggi rimettere i bambini al centro o è solo una frase retorica?
Io credo che debba succedere, anzi che siamo a un passo da che possa succedere.

Cosa glielo fa pensare?
Le famiglie in questo momento hanno giustamente un’attenzione fortissima sulla scuola e sui servizi educativi, insegnanti e educatori premono per avere voce in capitolo e per tornare a fare il proprio lavoro nel migliore dei modi possibili, i bambini chiedono di tornare a scuola perché hanno bisogno come l’aria di stare con altri bambini, in luoghi pensati per loro. Non credo si potrà evitare di riprendere in mano il tema dell’educazione in modo serio e organico: se vogliamo che il Paese riparta i bambini non possono rimanere un fatto privato, che riguarda solo le loro famiglie, ma devono diventare definitivamente parte di un pensiero collettivo. Andrà fatto e fatto seriamente, con risorse adeguate. Ma anche con una grande opera di formazione, perché chiunque di noi per attraversare un momento di cambiamento ha diritto di essere accompagnato: ne hanno diritto anche educatori e insegnanti. Non si può chiedere loro di attraversare questo momento straordinario senza sostenerli. E non sto pensando solo alla formazione per la Dad, perché anche la modalità in presenza chiede di essere cambiata.

Una nuova grande stagione con i bambini al centro? Io credo che debba succedere, anzi che siamo a un passo da che possa succedere. Le famiglie in questo momento hanno un’attenzione fortissima sulla scuola e sui servizi educativi, insegnanti e educatori premono per avere voce in capitolo e per tornare a fare il proprio lavoro nel migliore dei modi possibili, i bambini chiedono di tornare a scuola perché hanno bisogno come l’aria di stare con altri bambini, in luoghi pensati per loro. Non credo si potrà evitare di riprendere in mano il tema dell’educazione in modo serio e organico: se vogliamo che il Paese riparta i bambini non possono rimanere un fatto privato, che riguarda solo le loro famiglie, ma devono diventare definitivamente parte di un pensiero collettivo.

Un punto fermo sembra essere anche la necessità di aprire la scuola al territorio, non solo e non tanto per avere più spazi in cui fare lezione, ma per allargare le opportunità di educazione.
Siamo costantemente immersi in contesti potenzialmente educativi e di apprendimento, ma credo sia importante che non svapori il significato dell’essere scuola. Per me “educazione diffusa” non significa chiudere i servizi perché l’educazione si fa altrove, ma aprire i servizi perché questi possano stare in dialogo con il mondo. Questo è uno scarto fondativo. Dobbiamo cioè interpretare questa apertura reciproca non sull’onda del bisogno o della reiterazione – facendo le cose di prima semplicemente spostandole in un altro spazio – e nemmeno rimandando l’idea che servizi educativi e scuole possano essere facilmente sostituiti da proposte generiche, perché questo significherebbe venir meno al mandato educativo, che è una responsabilità pubblica sempre, anche quando ad assumerla sono soggetti privati. Dobbiamo tenere aperti i servizi con tutte le opportunità che ci sono sul territorio, ognuno pienamente consapevole del proprio ruolo, senza che nessuno deleghi e nessuno abdichi, ma tutti mettendo il meglio. Questo accadrà se l’apertura non avverrà in un’ottica strumentale. Un po’ credo stia già accadendo: il cominciare a sentirsi tutti responsabili dei bambini delle nostre comunità sta già facendo la differenza in alcuni piccoli paesi così come anche in alcune città. C’è sempre una scala territoriale dove si possono ricostruire legami di comunità forti, uscendo dai protagonismi e dalla competizione. Chi si mette in competizione oggi, ha già perso.


La copertina del numero di VITA di giugno, "Prima i ragazzi", è tutta dedicata alla sfida di avviare una nuova stagione con l'educazione al centro.

Foto Unsplash


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