Welfare & Lavoro

Da Cifa for Children a Cifa for People

Per i suoi primi 40 anni il Centro Internazionale per l’infanzia e la famiglia - il più grande ente italiano autorizzato alla adozioni internazionali - ha scelto diventare ancora “più grande”. «La nostra è un’evoluzione tipica: ti occupi di bambini e famiglie e capisci che far star bene un bambino significa far star bene tutto il sistema che gli sta attorno. Il nostro obiettivo è migliorare concretamente la vita delle persone, a Moncalieri o ad Addis Abeba»

di Sara De Carli

Da Cifa for Children a Cifa for People. Per i suoi primi 40 anni il Centro Internazionale per l’infanzia e la famiglia – il più grande ente italiano autorizzato alla adozioni internazionali – ha scelto diventare ancora “più grande” e di aprirsi al mondo intero. «La nostra è un’evoluzione abbastanza tipica: ti occupi di bambini e famiglie, e capisci presto che far star bene un bambino significa far star bene tutto il sistema che gli sta attorno, perché il benessere di un bambino è legato al welfare della sua famiglia e della sua comunità, dal Comune al Paese. Ce n’è anche un grande bisogno, chissà il Covid-19 ora quanti problemi lascerà… Inizialmente avevamo un po’ tutti l’idea che avremmo presto ritrovato la nostra vita di prima, ma è evidente che non è così», riflette Gianfranco Arnoletti, 76 anni, dal 1983 presidente di Cifa.

Com’è iniziata questa avventura?

Cifa è nato come Centro Internazionale per famiglie adottive, con un mandato molto mirato. Era l’aprile 1980. La mia famiglia è stata una delle prime famiglie utenti, abbiamo adottato con loro nel 1981, in Indonesia. Abbiamo fatto la formazione e siamo partiti per l’Indonesia con in mano un foglio con scritto un nome, un peso e una data di nascita: all’epoca il dossier era quello. Una cosa impensabile oggi, da incoscienti o folli… però non abbiamo mai avuto un dubbio. All’epoca chi adottava entrava un po’ in un “clan”: eravamo pochi, ci si riuniva spesso, ci si dava una mano… Inserire un bimbo adottato nella società a quel tempo non era una cosa semplicissima: banalmente andare a passaggio con la carrozzina – mia figlia l’abbiamo adottata che aveva sei mesi – significava che la gente ci fermava e faceva delle domande come “ma parlerà italiano?”. Mi fu chiesto di dare una mano in associazione e in pochissimo tempo mi sono trovato catapultato a fare il presidente, senza nemmeno sapere bene cosa mi aspettava. A quell’epoca Cifa aveva una dipendente. Quello che arrivato dopo… è l’esito di quello che abbiamo fatto, con la voglia e entusiasmo che si aveva.

Quando siete diventati l’ente autorizzato con più adozioni?

Da quanto esistono le statistiche siamo primi, ma anche prima eravamo l’ente più grande. Non le so dire perché. Lo siamo diventati. Avevamo molte relazioni con l’estero, alcuni di noi per lavoro viaggiavano molto e all’epoca non era una cosa scontata o diffusa… L’ente è nato con le adozioni in Brasile e in Indonesia, ma presto sono stati sviluppati rapporti con tanti altri paesi. E quando sei nei Paesi è giocoforza rendersi conto che ci sono molti più bambini che hanno bisogno di aiuto di quelli che verranno adottati: si parte a fare qualcosa per l’istituto, una raccolta fondi tra gli amici, e poi si va verso progetti e interventi più strutturati, perché l’aiuto che ha valore è quello sostenibile nel tempo, che assicura un certo benessere nel tempo. Così è arrivata la scelta di essere una ong. Abbiamo fatto molte cose in Cambogia e Etiopia, con progetti partiti lì perché lì facevamo molte adozioni ma che sono andati avanti a prescindere da quello. Per esempio in Etiopia non si adotta ormai da anni, ma il progetto di raccolta della plastica, la nascita di una rete di raccoglitori di plastica, l’aver trovato un importatore che compra schegge di plastica e aver creato un circuito di industria solidale ha cambiato la vita a molte persone. In Cambogia ci piacerebbe rafforzare la nostra presenza, per il Coronavirus gli istituti hanno chiuso e rimandato i bambini nei villaggi, affidandoli a lontani parenti o cercando il supporto di persone disponibili… è chiaro che quella non è una soluzione. In generale, il nostro obiettivo è che le attività che facciamo migliorino concretamente qualcosa nella vita delle persone, che sia a Moncalieri o ad Addis Abeba. A livello economico l’attività sui progetti oggi vale più di quella legata all’adozione e dei nostri progetti hanno già beneficiato 60mila bambini e credo che andremo velocemente verso i 100mila.

Come vede il presente e il futuro dell’adozione internazionale?

Certamente l’adozione internazionale è un’avventura che si è complicata parecchio: un conto è accompagnare una coppia in un percorso di un anno, ma se dura tre anni, con tante incognite… deve esserci fiducia altrimenti nella coppia sorge il dubbio se il suo sogno si avvererà veramente. La trasparenza è obbligatoria. In questo momento abbiamo parecchie coppie con la sentenza di adozione conclusa in India, che attendono di partire: per ora non c’è modo, speriamo di riprendere da settembre. Abbiamo bisogno di una migliore connotazione culturale, di un sentimento diverso attorno all’adozione: non rubiamo i bambini né li salviamo. Immagino una stabilizzazione delle adozioni, con anche una “selezione” fra enti che cercheranno di aggregarsi: fare 1.000 adozioni l’anno con 50 enti qualitativamente ha poco senso, significa farne 20 in media a testa, che realisticamente significa che qualcuno ne fa 4 o 5.

Di fusioni fra enti si parla da molto, ma non se ne sono viste tante…

Perché la Pubblica Amministrazione non ha avuto il coraggio di mettere risorse e dare un vantaggio dagli accorpamenti. Ci vuole una spinta gentile. Ha senso che a Roma abbiano una sede in affitto una trentina di enti? Si può fare meglio. Questi mesi per esempio ci hanno un po’ tolto l’idea che sia possibile dare assistenza a una famiglia solo se sei sotto casa sua… In sintesi direi che vedo con certezza una cambio forte nell’operatività, mentre auspico che ci sia un cambiamento forte anche nella cultura e nell’istituto stesso, che diventi più aperto: ci sono passaggi della legge che vanno cambiati, l’idea che per adottare si debba essere sposati è anacronistica. In questo contesto, vedo un Cifa che si occupa di ambiente, di educazione, di migrazione, di non discriminazione e di servizi per le famiglie.


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