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Famiglia & Minori

Per una maternità oltre i luoghi comuni

La maternità è un vissuto femminile del tutto personale o una questione sociologica di carattere generale? Prescindendo da ogni interpretazione moralistica è possibile fare della maternità un interessante crocevia della teoria sociale a partire dal quale leggere le criticità che investono la condizione delle donne, delle madri e delle lavoratrici nella nostra contemporaneità?

di Pietro Piro

Le costanti

Negli anni di lavoro come educatore nei Servizi Sociali, ho avuto modo di “seguire” molti casi di donne. Se penso agli elementi che accomunano tutte le storie personali con cui mi sono confrontato, direi che è possibile rintracciare delle costanti: la prima è la presenza ubiquitaria della violenza (fisica, sessuale, psicologica, economica, stalking). Violenza che segna indelebilmente il vissuto e lo condiziona continuamente, rendendo il presente difficile e doloroso. Violenza che non è possibile superare senza un lavoro di cura.

La seconda costante è il difficile rapporto con il lavoro. Tutte le donne che ho incontrato mi hanno parlato di sfruttamento, orari disumani (soprattutto nel settore delle pulizie), difficoltà estreme nel conciliare la vita familiare con quella lavorativa, tentativi di abuso sessuale, licenziamenti in seguito alla scoperta della maternità da parte del datore di lavoro, buste paghe ridotte rispetto ai propri colleghi uomini. Per non parlare poi della difficoltà di essere assunte da madri con figli (ancora di più se separate o divorziate).

La terza costante è il lavoro di cura che le donne prestano in famiglia senza alcuna retribuzione e riconoscimento (figli, mariti, anziani genitori). Da queste costanti è possibile ricavare un quadro molto chiaro: aldilà delle ideologie più o meno alla moda, per le donne il cammino di autonomia è ancora duro e difficile – molte volte tragico – e i diritti sulle carte non corrispondono poi alla quotidiana lotta per la sopravvivenza.

Per una sociologia della maternità

Credo possa essere utile per chiunque abbia a cuore la condizione femminile il volume di, Sara Fariello, Irene Strazzeri, Davide De Sanctis, Sociologia della maternità, Mimesis, Milano-Udine 2020. Un libro profondo e necessario che permette di approfondire aspetti dell’intimità delle donne poco conosciuti e dibattuti (come le violenze ostetriche).

La riflessione iniziale fa il punto dell’attuale situazione: «Nel nostro paese, povero dal punto di vista economico ed immobile dal punto di vista sociale, i tassi di disoccupazione femminile aumentano, i meccanismi ricattatori pesano sulle scelte delle lavoratrici e la maternità, che spesso rallenta, ostacola o blocca il percorso professionale, resta il nodo irrisolto.

Il Welfare italiano, in gran parte smantellato, è da sempre basato sul lavoro volontario delle donne che si dedicano ai figli, agli anziani e ai maschi adulti: a fronte della mancanza e della carenza di servizi pubblici, la difficoltà della conciliazione dei tempi di lavoro con quelli familiari costringe sempre più le donne a scegliere se sacrificare la propria vita affettiva o rinunciare al proprio lavoro.

Dopo la stagione delle battaglie femministe degli anni Settanta, che ha prodotto risultati importanti come le leggi sui congedi di maternità, i riposi per l’allattamento, l’istituzione degli asili-nido e dei consultori familiari, stiamo registrando una regressione sul piano dei diritti sociali: basti pensare alla carenza strutturale e ai costi degli asili-nido, ai ritardi con i quali partono le mense scolastiche, agli orari ridotti nelle scuole pubbliche che non sono in grado di impegnare i bambini in attività sportive e/o ricreative extrascolastiche.

Dovremmo, oggi, forse parlare non tanto di Gender gap ma di backlash: dopo aver rivendicato diritti e libertà, le donne stanno tornando indietro. Nelle crisi continuamente prodotte dal capitalismo globale, esse percepiscono i salari più bassi, vengono più facilmente espulse dal mercato del lavoro, non godono più di alcune tutele sociali e, nella maggio parte dei casi, non vedono riconosciuto il diritto alla maternità: la pratica illegale delle dimissioni in bianco o la richiesta brutale di fornire test di gravidanza nei periodi di rinnovo dei contratti confermano questa triste realtà. Inoltre, esse devono sobbarcarsi la maggior parte del lavoro domestico e di cura in una società ancora basata sulla divisione sessuale del lavoro nella quale non è previsto nessun criterio per una più equa distribuzione delle responsabilità familiari.

Questa rigida divisione dei ruoli rappresenta una trappola, una morsa che co-stringe le donne nel doppio ruolo pubblico-privato, produttivo e riproduttivo e rende la maternità una corsa ad ostacoli. Le battaglie femministe a livello internazionale cercano di mettere in evidenza anche questo: il lavoro delle donne, dentro e fuori la famiglia, deve essere riconosciuto, valorizzato e tutelato.

Viviamo d’altronde in una fase storica che stiamo imparando a definire post-patriarcale o neo-patriarcale nella quale sono presenti oltre agli elementi del patriarcato classico, anche quelli di un patriarcato nuovo, moderno e liberale. Un sistema sessista che non opera più vistose ed evidenti discriminazioni ma agisce in maniera ambigua, subdola e non meno pervasiva. Di fatto, la maternità sta diventando per un verso un “lusso”per i costi che comporta e, per l’altro verso, un ordine naturale, esclusivo e trionfante per i sacrifici che comporta in termini di tempo, energie e rinunce.

Per secoli, essa è stata un “destino” biologico, un dovere religioso e sociale, il luogo dell’oppressione nel quale la figura della donna è stata appiattita e modellata su quella della madre esclusa dalla sfera della decisione e del dibattito pubblico.

Oggi torna, giocoforza, ad essere prospettata come l’esperienza più importante ed irrinunciabile per una donna. Il ruolo destinale delle madri, per lungo tempo rimosso, ritorna ad essere centrale mentre di padri si parla, ancora, molto poco. È paradossale come nel momento in cui le donne sono riuscite a liberarsi del patriarcato, classicamente inteso, esse stiano sperimentando una nuova forma di dominio ossia l’ideologia maternal-naturalista che riscopre le leggi della natura e della biologia per relegare nuovamente le donne nella sfera privata/ domestica.

Alle donne viene, infatti, chiesto di riscoprire i piaceri familiari, dedicarsi totalmente ai figli allattando per molti anni, rinunciare ad un lavoro che sacrifica e mortifica la loro “femminilità”. Oppure, se proprio vogliono lavorare, esse devono diventare mamme “acrobate” in grado di conciliare vita lavorativa e affettiva e offrire le migliori performance. […] La mamma multitasking è, dunque, il modello imposto alle donne che non vogliano rinunciare né al lavoro né alla maternità. Intanto, nel nostro paese, dove il mito del materno è potentissimo, si fa assai poco sul piano delle leggi, del Welfare e della rappresentazione sociale della maternità. Mentre messaggi pubblicitari, immagini e valori fondati su stereotipi esaltano la bellezza di tale esperienza, non si parla mai del rovescio della medaglia fatto di difficoltà, disagio, frustrazione e solitudine (pp. 12-14).

Credo che il principale merito di questo volume sia proprio quello di andare contro i luoghi comuni associati alla condizione “materna” e mostrare “il risvolto della medaglia” di una condizione che spesso nasconde proprio «difficoltà, disagio, frustrazione e solitudine». Fa bene, allora, Sara Fariello ad affermare che: « la lotta per l’emancipazione deve passare inevitabilmente per una rivalutazione e per una ri-distribuzione radicale dei lavori sociali e riconoscere la differenza sessuale nella sua dimensione politica per de-naturalizzarla e risignificarla.

Il prezioso lavoro svolto dalle donne dentro la famiglia, dovrebbe essere non solo riconosciuto, tutelato e valorizzato ma anche più equamente distribuito nel senso di una “collettivizzazione” dei carichi di lavoro domestico e familiare. Le faccende domestiche e il lavoro di cura non sono, invece, considerati un lavoro vero soprattutto perché a svolgerli sono le donne: eppure, senza il lavoro non pagato delle donne, ogni economia occidentale arriverebbe al collasso nel giro di pochi giorni» (pp. 155-156).

La nostra società funziona estraendo valore dal lavoro della donna senza un adeguato riconoscimento – non solo economico – che impedisce un vero cammino di liberazione. La donna deve essere sempre rispondente al copione della buona mamma: « Nell’immaginario collettivo odierno, la maternità viene ancora rappresentata come il luogo dell’accudimento e dell’amore dove non c’è posto per i conflitti interpersonali ma viene continuamente sottaciuto il fatto che essa è, al contrario, un’esperienza ambivalente caratterizzata anche da sentimenti di rabbia, frustrazione, insoddisfazione, sconforto: riducendo la spazio di manovra e il livello di autonomia di una donna può rivelarsi una condizione oppressiva per il genere femminile.

In questo contesto, il rimpianto appare come un’aberrazione, un sentimento immorale, un posizionamento emotivo inconcepibile che non trova né lo spazio né le parole per essere espresso; eppure, esso è un valido strumento di indagine delle realtà materne, un universo da esplorare senza tabù o pregiudizi poiché ci può aiutare a capire molto di quanto le donne sentono ma non dicono per il timore di essere considerate “cattive madri”, madri non conformi ai copioni delle norme emotive, così come lo sono le donne colpite dalla depressione post partum» (p. 170).

Per svincolarsi da questi ruoli imposti da una società ancora patriarcale e che arretra dal punto di vista dei diritti e del welfare occorre che « il lavoro di autocoscienza, deve essere profondo» (p. 202).

Lavoro che deve coinvolgere anche gli uomini perché « anche i padri, come le madri, sono “vittime” di modelli di genere che più che guardare alle capacità e ai desideri dei singoli individui, li imprigionano in modelli sociali penalizzanti. Si pensi al termine quasi dispregiativo di “mammo” con cui ci si riferisce ai padri “accudenti”, come se non potesse esistere una cifra paterna dell’accudimento, come se questo coinvolgimento degli uomini fosse la testimonianza di debolezza e di perdita di autorevolezza» (p. 177).

Il cammino di liberazione delle donne, dunque, non è un percorso di corto respiro che favorisce una piccola minoranza. Si tratta, invece, di un grande balzo in avanti di un intera società che con una maggiore partecipazione e direzione materna può solo che migliorare (come dimostrano studi approfonditi su questi temi).

La fraternità s’insegna

In conclusione, mi si permetta un ricordo personale. Sono cresciuto in una famiglia con la presenza costante di molte donne di diverse età. Ognuna mi ha regalato affetto, tenerezza, dolcezza. Quello che mi hanno trasmesso profondamente è che il lavoro della fraternità è impossibile senza generare in noi sentimenti materni di cura. Poco importa che questi sentimenti siano abitati in un corpo maschile o femminile. Senza questi “sentimenti materni” siamo poveri e insicuri. Incapaci di riconoscerci nel bambino che eravamo, che tuttora – nonostante tutto – siamo. Il bambino che negli occhi della madre sente la presenza dell’Universo che lo consola e lo guida.


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