Welfare & Lavoro

La denuncia degli enti lombardi: «L’Italia riparte ma per le comunità è impossibile lavorare»

La delibera della Regione Lombardia dello scorso nove giugno ha sollevato diversi dubbi tra gli enti che gestiscono comunità per chi soffre di dipendenze. Dall'isolamento preventivo di 14 giorni prima dell'ingresso in comunità all'impossibilità di uscire per tirocini lavorativi o visite programmate alla famiglia. Di fatto sono state equiparate alle Rsa, invece sono necessarie attenzioni specifiche per specifiche utenze. Questa delibera non risponde al bisogno di cura delle persone

di Anna Spena

La delibera della Regione Lombardia 3226 dello scorso nove giugno “Atto di indirizzo in ambito sociosanitario successivo alla “fase 1” dell’emergenza epidemiologica da Covid-19” desta non poche preoccupazioni in tutti gli enti che in Regione si occupano di dipendenze. “Al fine di assicurare il progressivo ripristino di tutte le attività sociosanitarie nella massima sicurezza di utenti e operatori nella cosiddetta “Fase 2” dell’emergenza da SARS-CoV-2 e per tutta la durata dell’emergenza sanitaria da COVlD-19, come stabilita dalla Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020” si legge nel documento, “è necessario definire azioni volte non solo alla prevenzione dell’epidemia, ma anche al tempestivo riconoscimento di ogni eventuale caso sospetto, con i conseguenti immediati interventi di contenimento del contagio e, se del caso, con la rimodulazione delle offerte erogate".

«Nei mesi del lockdown», spiega Pietro Farneti, consigliere delegato di Fondazione Eris, «abbiamo ricevuto dalla Regione solo qualche circolare. Ora addirittura una delibera. Stando al documento quello che possiamo evincere è questo: mentre il mondo fuori riparte – con le dovute precauzioni – noi rimaniamo chiusi. Le persone riprendono la loro vita sociale e lavorativa, ma per gli ospiti delle nostre comunità questo non è possibile».

Sono diversi i punti nella delibera che sollevano dubbi. «Nell'allegato A della delibera si legge», continua Farneti, «che prima di entrare in comunità il paziente deve essere sottoposto a test sierologico e tampone e rimanere in isolamento in casa per 14 giorni. Ed è la struttura che poi ospiterà la persona a dover garantire che l’isolamento sia effettivamente osservato».

Ma come si può controllare che la quarantena sia effettivamente rispettata senza rischiare che in una crisi d'astinenza la persona esca in cerca di alcol o sostanze? Passati i primi 14 giorni si esegue un altro tampone, se è negativo la persona può entrare in comunità. Ma non è finita qui. «Una volta in comunità poi non si può più uscire, o se lo si fa, bisogna ripetere l'isolamento preventivo. Ciò significa che non è possibile fare visita alla famiglia e neanche iniziare i percorsi di tirocinio lavorativo. E questa cosa è di fatto un controsenso visto che le comunità sono dei luoghi nati per riabilitare le persone che soffrono di dipendenze a reinserirsi nella società». Ma insieme a questa incongruenza di base ci sono altri aspetti che non sono chiari: «Se uno degli ospiti», continua Farneti, «risulta positivo al tampone deve essere spostato in un’altra struttura, ma nella delibera non viene indicato quale. O ancora se ha la febbre deve essere comunicato, ma non si specifica a chi. Inoltre esistono diverse strutture dette “a bassa intensità”, più leggere, dove gli ospiti entrano ed escono con più flessibilità, che nel documento non sono neanche menzionate».

In audizione diretta in terza commissione l’assessore alla sanità e il welfare Giulio Gallera «ha dichiarato», spiega Farneti, «di aver sentito le associazioni interessate dalla delibera. Ma questo, almeno per quanto riguarda l’ambito delle dipendenze, non è vero ed è un altro aspetto grave della questione: di fatto non siamo stati interpellati. E allora i diritti delle persone che curiamo chi li difende?».

Il cuore della questione sta proprio qui. Non aver tenuto in considerazione i bisogni di chi soffre di una qualche forma di dipendenza e di come l’impossibilità di uscire dalla comunità rappresenti un ostacolo al percorso di cura della persona stessa. «Le comunità per persone che soffrono di dipendenza», spiega Alberto Barni, presidente del Ceal, coordinamento enti accreditati e autorizzati Lombardia, «non possono essere equiparate alle Rsa. Questa delibera poteva andar bene tre mesi fa. Ma adesso, che poco alla volta il mondo ricomincia, non possono chiuderci. Bisogna considerare che sono necessarie attenzioni specifiche per specifiche utenze. La Regione, probabilmente, ed anche giustamente, spaventata da quello che è successo nelle Rsa, ha voluto procedere con un provvedimento che ha messo tutti sullo stesso livello. Ma chi soffre di dipendenze non ha le stesse fragilità o difficoltà che presentano le persone anziane o le persone disabili. Questa deliberà né ci permette di lavorare, né risponde al bisogno di cura delle persone. Siamo aperti al dialogo ma in ultima analisi non escludiamo un ricorso al tar».

Difficile prevedere come si evolverà la questione. «Siamo all’assurdo», aggiunge Simone Feder, psicologo della Comunità la Casa del Giovane di Pavia, «i ragazzi possono entrare in una sala giochi ma quelli che iniziano un percorso in comunità non possono andare a casa per rientri programmati con la famiglia. Questo desta grande preoccupazione. Pensate a un giovane che dipende dalle sostanze magari appena uscito dal bosco di Rogoredo. Come può rimanere 14 giorni in casa prima di poter entrare in comunità? Le famiglie e i ragazzi necessitano di passaggi umanitari diversi. Invece noi che facciamo? Li lasciamo in casa con rischio che dopo un giorno escano perché hanno bisogno di drogarsi?».

Ragazzi che tra l’altro sono sempre molto attenti alle cose del mondo. «I bar sono aperti, le palestre pure, i ristoranti», dice Franco Taverna segretario generale di Fondazione Exodus di don Mazzi, «diventa impossibile giustificare il fatto che loro invece devono essere completamente chiusi. È molto pesante questa cosa dopo tutti i mesi di lockdown. Pesante e non comprensibile. Soprattutto alla luce del fatto che le comunità mettono in atto tutte le procedure per evitare il contagio: dall’uso delle mascherine fino alla sanificazione degli ambienti».


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