Media, Arte, Cultura

Cristianesimo e libertà di coscienza, questa sconosciuta?

La libertà cristiana è troppo nuova e radicale per essere compresa in pochi minuti. Eppure, spiega Adrien Candiard nel suo ultimo libro edito da Emi, nulla è tanto urgente quanto il comprendere e l'accogliere quella libertà

di Adrien Candiard

Spesso la religione cristiana è vista come un elenco di proibizioni o una lista di precetti da seguire pedissequamente. Niente di tutto ciò, sostiene l’islamologo domenicano Adrien Candiard. Che, nel libro “Sulla soglia della coscienza” (link) (EMI), conduce al cuore del cristianesimo: il primato della coscienza rispetto alla legge. Eccone i primi paragrafi.

I preti, lo sappiamo bene, amano fare la morale. Con l’aria grave e il tono comprensivo, ma l’occhio accusatore, ricorrendo a parole astratte e vagamente inquietanti, vi spiegano come vivere, con quelle certezze che possiede soltanto chi della vita non conosce niente. Vi dicono come amare, cosa bisogna fare, cosa bisogna pensare, cosa si deve credere, senza apparentemente avere la minima idea dell’incredibile miscuglio di urgenze, di doveri, di voglie, di fatiche, di convinzioni, di necessità, di fantasie, di desideri, di inibizioni, di tentazioni, di attaccamenti, di ambizioni e di riflessi di cui è costituita una vita concreta. Tutto sembra così semplice quando vi dicono: «Bisogna». Tutto è così complicato, quando vi sforzate di viverlo.

Non intendo, per solidarietà corporativa, insistere oltre su questi luoghi comuni sui preti. Capita probabilmente a tutti noi, in modi più o meno gravi, o più o meno ridicoli, di assomigliare un giorno o l’altro a questo genere di spaventapasseri. Non è certo una scusa valida, ma non avete idea della frequenza con cui ci vengono richieste simili lezioni di morale. Il giovane cattolico praticante che si domanda come vivere bene il suo desiderio di amare, la quarantenne New Age incontrata in autostop che s’interroga sulla sua carriera futura, il pensionato di fresca data che si esercita nell’arte di essere nonno, la mamma che fa come meglio può i salti mortali tra famiglia e lavoro, i volti di chi, un giorno o l’altro, in una maniera o nell’altra, mi hanno domandato come dovevano vivere sono innumerevoli e svariati. Non si tratta affatto di nevrotici divorati dall’angoscia. Credenti o no, sono semplicemente gente perbene, persone apprezzabili che si sforzano di vivere bene, di fare bene, e che per questo si dibattono come meglio sanno con il gran bazar contraddittorio della loro vita. Per provare a mettere un po’ di ordine, si sforzano di far rientrare la realtà complicata in categorie semplici: il permesso, il proibito, l’obbligatorio. Sperano in questo modo di non ingannarsi, di non fare troppo male, o di non causare troppo male attorno a sé. E pensano di trovare nella chiesa, che reputano in grado di dispensarle a tempo e fuori tempo, queste lezioni di morale da cui sperano di trarre un po’ di sostegno. Perciò domandano: che cos’è permesso? Che cos’è vietato?

Solitamente trovo toccante questa preoccupazione di voler fare bene. Ma mi prende anche alla sprovvista. Perché, in fondo, a simili domande io non ho granché da rispondere. In realtà, la fede cristiana, che tutti costoro attraverso di me vengono a interrogare, avrebbe molto da dire sui temi che li preoccupano – sull’amore, sul male, sull’impegno, sulla sofferenza… –, ma è nettamente meno loquace quando in essa si va a cercare una lista di obblighi e di divieti. Quando vengo sollecitato a rispondere in questi termini, io, il professionista della parola, biascico qualcosa e mi blocco. Non è di questo che io vorrei parlare. Quel che mi abita, che mi interessa, per cui voglio dare la mia vita, è la salvezza offerta in Gesù Cristo, è la vita eterna che ci è data da vivere fin da subito, è la libertà dei figli di Dio. Avrei voglia di rispondere, con san Paolo: «Tutto mi è lecito!». Avrei voglia di urlare, con Paul Claudel: «Per fortuna c’è Gesù Cristo che ci ha liberato dalla morale!».

Se in quei momenti non so bene come dirlo, è anche perché amerei dire qualcos’altro, di più grave, di più triste. Dire che se la chiesa ha talvolta mancato così gravemente alla sua missione, se dei chierici hanno potuto distruggere delle vite, come la stampa ci ricorda ormai quotidianamente, non è soltanto questione di alcuni psicopatici criminali, con i quali faccio una gran fatica a sentirmi in un modo o nell’altro solidale. È anche il risultato di tutte quelle situazioni in cui noi (e qui devo farmi carico anch’io della mia parte) non abbiamo saputo far crescere la libertà di quanti venivano a chiederci un aiuto, di tutte quelle volte che abbiamo trovato più semplice citare la legge piuttosto che invitare a seguire lo Spirito, di tutte quelle occasioni in cui siamo entrati nella coscienza altrui senza prudenza, per imporvi le nostre certezze. Questi abusi invisibili, lo so bene, sono fratelli degli altri abusi, quelli su cui vengono creati titoli a caratteri cubitali. Me ne vergogno al solo pensarci. E questo non mi aiuta a rispondere.

Il mio interlocutore che è venuto a cercare da me una regola da seguire è paziente, in generale, davanti al discorso confuso che farfuglio con lui. È una persona educata. Mi approva, sorride, scuote la testa, mentre io parlo di libertà di coscienza; talora mi ringrazia per le mie parole così illuminanti. Ma poi torna quasi subito al tema che lo preoccupa: «E allora… posso o non posso?».

In effetti la libertà cristiana è troppo nuova e rivoluzionaria per essere accolta in pochi minuti, o semplicemente compresa, proprio da coloro ai quali essa si rivolge. Eppure non c’è niente di più urgente da dire ai cristiani d’oggi. È ciò che mi ha spinto a scrivere questo piccolo libro, sperando di andare, per una volta, al di là dello stadio dei balbettii.

Sulla soglia della coscienza, di cui queste righe sono un estratto, è disponibile all’interno del sito web di EMI Editrice Missionaria Italiana (link)


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA