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Agromafie, un business da fermare: la responsabilità delle filiere alimentari

Il problema dello sfruttamento agricolo e delle agromafie è di natura sistemica. Non parliamo di forme di sfruttamento marginali, episodiche, eccezionali e che riguarda solo alcuni territori, ma di pratiche diffuse che coinvolgono l'intera filiera. Ne parliamo con il sociologo Marco Omizzolo

di Marco Dotti

L'emergenza Covid-19 ha suscitato molto dibattito sulla logistica e l'utilmo miglio della distribuzione. Ma lo sfruttamento nel cosiddetto "primo miglio", soprattutto nel settore agricolo, non si è arrestato, tutt'altro. Ne parliamo con il sociologo Marco Omizzolo (nella foto in copertina), ricercatore Eurispes, da anni impegnato sul tema, in particolare nell'ambito dello sfruttamento della manodopera straniera e italiana nell'Agro Pontino.

Il tema delle agromafie, dello sfruttamento del lavoro, delle responsabilità delle filiere sono un tema cruciale per il nostro Paese: a che punto siamo?
Sta ormai entrando a sistema in maniera sempre più puntuale quella che può essere considerata la legge più importante in Italia e in Europa contro lo sfruttamento lavorativo e il caporalato che è la legge 199 del 2016. Una legge che, peraltro, nasce anche grazie alla spinta straordinaria dello sciopero che abbiamo organizzato a Latina il 18 aprile del 2016 insieme alla Flai Cgil, con oltre cinquemila braccianti indiani che deciso di iniziare un cammino di giustizia e verità contro sfruttatori, padroni e padrini loro connazionali e italiani. Una norma importante applicata purtroppo soprattutto nei suoi aspetti repressivi. Questo significa che forze dell'ordine e le procure, molto più della politica, intervenire su questo sistema criminale in modo detereminato attraverso arresti, sequestri e, poi, processi. Quella norma purtroppo non è applicata nei suoi aspetti preventivi e riorganizzativi. In questo Paese è ancora più facile arrestare che organizzare una filiera pulita e trasparente. L'opacità quando diventa sistema ed economia è difficile da superare se non c'è una volontà politica univoca e chiara. E questa anche a livello territoriale purtroppo ancora latita.

Che cosa significa in termini concreti?
Significa che continuiamo a rincorrere anche se più e meglio di prima il problema e le relative agromafie. Attenzione, però: il problema è di natura sistemica. Non parliamo di forme di sfruttamento marginali, episodiche, eccezionali e che riguarda solo alcuni territori. Esse invece ormai caratterizzano in maniera trasversale il mercato del lavoro e, soprattutto, il lavoro agricolo in particolare dei migranti.

Lo scorso anno, secondo i dati di Eurispes, il business delle agromafie è stato di circa 25 miliardi di euro e la sua articolazione coinvolge non solo il settore della produzione ma anche quello della logistica, del commercio, dei grandi mercati ortofrutticoli, della trasformazione e della grande distribuzione organizzata. Una montagna di denaro che va a finanziare i sistemi criminali, compresi quelli mafiosi, e che caratterizza tutta la filiera agroalimentare nazionale e a volte anche internazionale. Pensiamo al recente intervento delle forze dell'ordine in Calabria e Basilicata, dove gli sfruttatori si permettevano di chiamare “scimmie” i lavoratori africani, dando loro da bere l'acqua dei canali di scolo.

Un altro esempio ci viene dal Pontino, dove il 23 aprile 2020 una importante azienda agricola è stata sequestrata: vi lavoravano quasi un centinaio di persone, migranti ma anche donne italiane, pagate tra 500 e 800 euro per lavorare anche 12 ore al giorno, tutti i giorni del mese, senza le misure di sicurezza necessarie. Erano reclutati mediante caporale e trasportati con furgoncini molto pericolosi. Vittime di caporalato, ma di un caporalato sistemico. Lo stesso è accaduto a Forlì qualche settimana fa, dove sono state liberate dalle catene dello sfruttamento circa 40 persone, prevalentemente pachistani che lavoravano 14 ore al giorno per 50 euro al mese…

Durante la fase Covid abbiamo registrato un'importante attività investigativa repressiva, che sostanzialmente ha funzionato. Manca, però, tutta l'altra parte: quella organizzativa e preventiva.
Manca quello che potremmo definire un sistema di politica del mondo agroalimentare, necessaria per la bonifica dalle agromafie. Questo è un punto nevralgico, abbiamo bisogno di altre e migliore leggi, oltre a quelle esistenti.

Ad esempio?
Penso a una legge che vieti definitivamente le doppie aste al massimo ribasso. Questa è una battaglia importante di una associazione, Terra! Onlus, che per prima ha analizzato e si è battuta contro questa “tirannia”. Le doppie aste al massimo ribasso sono una delle strategie messe in campo dalla grande distribuzione per acquistare i prodotti ortofrutticoli ai prezzi più bassi possibili. Per poi rivenderli nei supermercati attraverso strategie di marketing aggressive, come quelle del sottocosto e non solo. Ma quando acquistiamo una passata di pomodoro a 30 centesimi presso un qualunque supermercato dobbiamo sapere che molto probabilmente dietro quella produzione c'è sfruttamento se non anche riduzione in schiavitù.

La subordinazione al caporalato e alle logiche speculative della grande distribuzione cosa comporta nello specifico?
Comporta di avere nelle nostre campagne centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici, spesso migranti, che vivono in condizioni di grave subordinazione. Qualche settimana fa, a Sabaudia, un bracciante indiano si è visto chiedere dei soldi per la regolarizzazione.

Una regolarizzazione che sembra più una sanatoria nei confronti di alcuni datori di lavoro, d’altronde…
Il bracciante di cui stiamo parlando si è visto chiedere, all’interno di un'importante azienda agricola pontina, il cui padrone probabilmente puntava alla regolarizzazione prevista dal decreto rilancio, una cifra vicina ai 9mila euro per “sanare” il contratto di lavoro. Lo stato di vessazione e subordinazione è stato tale che il lavoratore indiano si è suicidato impiccandosi dentro casa. Nel pontino è il tredicesimo caso di suicidio di un bracciante indiano negli ultimi tre anni. Sono segni di una devastante combinazione di sfruttamento della manodopera, speculazione e cinismo.

Quindi quando parliamo di filiera agroalimentare ricordiamoci che stiamo parlando anche di un sistema che produce, accanto alle migliori esperienze, condizioni di sfruttamento e sofisticazione alimentare drammatiche. E le peggiori esperienze hanno un nome: schiavitù e mercificazione della vita quotidiana. Queste due ambivalenze ancora oggi assolutamente presenti nel nostro Paese rischiano di rimanere presenti anche domani, se non produciamo leggi migliori e se non cancelliamo i decreti sicurezza come riconosce anche Amnesty International Italia con lo studio “I sommersi dell'accoglienza” del gennaio scorso.

Il primo “decreto sicurezza” ha prodotto emarginazione consegnando nelle braccia di caporali e padroni decine di migliaia di richiedenti asilo ex beneficiari di protezione umanitaria, che per sopravvivere si sono ritrovati i a lavorare nei campi in condizioni di gravissimo sfruttamento.

Ma accanto a questi due element; produrre leggi migliori; abrogare i decreti sicurezza, resta aperto il tema della grande distribuzione…
La filiera alimentare deve cambiare e serve una rivoluzione nella grande distribuzione, sia a livello nazionale che internazionale. Questi sono gli elementi essenziali. Elementi che andrebbero connessi a una riforma della cittadinanza: è ora di parlare di diritti in capo ai cittadini e non più migranti. Perché quando un migrante, per esempio un indiano lavora da trent'anni nel nostro Paese, è un cittadino e solo riconoscendolo come tale possiamo sottrarlo a questo circolo perverso elevando, al tempo stesso, il grado di democrazia del nostro Paese.


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