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Il conformismo militante: un dizionario delle nostre ipocrisie

L'ultimo libro di Giuseppe Culicchia affronta una malattia molto diffusa tra gli intellettuali italiani: l'attitudine a conformarsi al sentire comune. A venir meno è lo stimolo al cambiamento

di Francesco Paolella

Dai tentativi militanti di neutralizzare ogni spigolosità del linguaggio, dalla ricerca smaniosa di cancellare i “lati oscuri” e contraddittori della vita politica e sociale, imponendo luoghi comuni e parole d’ordine ormai indispensabili per entrare nel mercato delle lettere e delle idee, non può che derivare il dominio intollerante del perbenismo.

Ogni epoca ha certamente le sue mode ei suoi divieti, ma questa è l’epoca della finzione e dell’edulcorazione. Ed essendo un tempo contrassegnato da masse di isolati, di impoveriti e di smemorati, non può che derivarne un conformismo soffocante. E ciò vale in primo luogo per la cosiddetta (e sedicente) “cultura di sinistra” (liberal, antifa, genderfree…). La finzione ipocrita conduce in questo campo alla ridondanza delle indignazioni per le volgarità del potere e alla idolatria della “società civile”; essa conduce a letture obbligate (almeno annunciate: Saviano, Murgia…) e a pubbliche commozioni ricorrenti per le vittime dei nostri tempi (i migranti, i gay, i precari, i “diversamente abili”…).

L’ipocrisia, come ben ci dimostra Giuseppe Culicchia nel suo E finsero feloci e contenti. Dizionario delle nostre ipocrisie (Feltrinelli, 240 pagine, 16,50 euro), sta poi anche nel fatto che l’imbarbarimento della vita civile ha fatto smarrire ogni parvenza di coerenza: è da condannare soltanto l’offesa al mio amico (per questioni fisiche, sessuali, morali…), mentre, nel denigrare il mio nemico, non deve esistere né pietà né pudore.

Così, il tanto diffuso body shaming è perfettamente lecito se vengono colpite le persone di destra (Brunetta, Ferrara), ma è intollerabile per quelle di sinistra:

“Nani: Al tempo della Prima Repubblica e del Partito Socialista si accompagnavano sempre alle ballerine. Oggi, benché ci sia chi in privato definisce così i propri figli o quelli altrui, usare questa parola è sconsigliato, anche nel caso ci si trovi al circo coi nipoti, dove comunque non ci si dovrebbe trovare visti i maltrattamenti inflitti agli animali. Tenere però a mente che questo, va da sé, non vale per i succitati Brunetta e Berlusconi, a cui perfino la Rai dedicò un simpatico programma intitolato L’ottavo nano. Esercizio mentale: immaginarsi un leader della sinistra basso, e una rete Rai in mano alla destra che intitoli così un programma farcito di sketch caricaturali su tale leader. Figurarsi anche le reazioni, le chat, i tweet, i commenti e gli editoriali” (pagina 26).

Di sicuro, si tratta di una censura selettiva molto efficace: ad esempio, le razze non esistono più, ma solo se si stratta di bianchi europei o nordamericani; ancora, il genere non è più un fattore essenziale nella vita di una persona, ed anzi uno strumento vessatorio, ma solo se riguarda i maschi eterosessuali.

Il linguaggio ha subito una completa metamorfosi, ma al di sotto di censure e omissioni, lo “sgradevole” della vita, c’è ancora. Ci sono ancora le malattie, la morte e le disabilità, anche mentali. Servono ancora gli spazzini per tenere pulite le strade e, ancora, tanti barboni sono costretti a sopravvivere al loro abbandono, anche se non più lecito chiamarli così.

Oggi soltanto l’identità delle minoranze (ovvero: di certe minoranze) ha valore e va difesa, anche se, a volte, essa fa a pugni con i nostri eterni valori democratici e progressisti. Ma che ne è delle folle invisibili? Perché ci si illude di poterle liquidare confinandole nel sottoscala del sovranismo e del populismo? Perché non si vuole ascoltare la loro voce, anche se, spesso, essa si fa sentire in modo sgraziato ed eccessivo? Possiamo riassumere così: la solita “differenza antropologica” dei compagni continua a far danni: è bello il popolo e la multiculturalità è un valore, ma ciò vale solo se il popolo multiculturale rimane a debita distanza, se lo si guarda da lontano o dall’alto. Tutto ciò non fa che creare contraddizioni tragicomiche: in nome dei principi democratici post sessantottini, le scuole, ad esempio, sono ormai ridotte a parcheggi multilingue, dove non ha più senso la responsabilità del valutare e dove non ha più senso mettersi alla prova. Più in generale, non resta che una pantomima dei conflitti. Vengono messi in campo spettacoli sempre uguali, in cui gli attori sociali (i partiti, i sindacati, la chiesa) ripetono stancamente la loro parte in commedia e tutto finisce lì.

In tutto questo, ciò che fa più impressione sono gli automatismo di questo conformismo: rischiamo di dire tutti sempre le stesse cose: bisogna citare questo o quel personaggio, ricordare questo o quell’evento, bisogna ribadire dogmi ormai polverosi sulla nostra storia recente: il 25 aprile si canta Bella ciao, l’11 settembre è quello di Allende ecc. ecc.

Altro must: vedere ovunque e sempre (e soprattutto nell’imminenza di ogni tipo di elezione, anche di quartiere) riemergere il “pericolo fascista”:

“Antifascisti: A tre quarti di secolo dall’uccisione di Mussolini e dalla fine della guerra, Casa Pound e Forza Nuova si adoperano quotidianamente per dare un senso alla loro esistenza. Vedono fascisti dappertutto: secondo loro sono o sono stati fascisti non solo i cosiddetti postfascisti ex Msi ed ex An oggi FdI, ma anche Trump e Putin, per tacere va da sé di Salvini e Berlusconi. Sono inoltre intimamente fascisti tutti coloro che hanno qualcosa da obiettare in merito ai matrimoni gay e allo ius soli, all’utero in affitto e all’accoglienza indiscriminata dei migranti, nonché chiunque non si dichiari favorevole alla liberalizzazione totale delle “sostanze” e alla chiusura immediata delle carceri. Un infallibile rilevatore di fascisti è poi il Gay Pride: basta non parteciparvi per essere sospetti di pulsioni nostalgiche per il regime” (pagina 161).

A volte, sembra davvero che ci siano più nazisti oggi qui in Italia che in Germania nel 1938…

A ben pensarci, questo libro di Culicchia non è che un esercizio di memoria e sembra davvero fatto mettendo assieme tanti ritagli. Ci ricorda che nessuno è immune dall’ipocrisia dominante e, al di là delle ascendenze flaubertiane, vuol mostrarci soprattutto la classe “dirigente” italiana, con i suoi lacché e i suoi eterni aspiranti, per quello che essa è: un pollaio in cui, per sopravvivere, bisogna soltanto turarsi il naso, non pensare davvero a cosa si dice e sapersi continuamente “riposizionare”.


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