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Economia & Impresa sociale 

E se l’economia ripartisse dalle emozioni?

La componente emotiva è ancora sottovalutata e sottoutilizzata nei contesti professionali, eredità di una logica cartesiana che oggi più che mai si rivela errata e di una tradizione tayloristica che ci ha consegnato una visione anaffettiva e de-emozionalizzata delle organizzazioni. Gli studi delle neuroscienze invece confermano che separare ragione ed emozione non solo è impossibile ma è dannoso

di Vanna Iori

L’intelligenza emotiva è a tutti gli effetti uno strumento professionale, una risorsa che si traduce in atti pratici e fa registrare risultati concreti. Si tratta dunque di una competenza non accessoria ma fondamentale nelle organizzazioni in ogni ambito professionale. La relazione tra ragione ed emozioni è estremamente complessa, ma entrambe sono componenti essenziali. E, tuttavia, la componente emotiva è ancora sottovalutata e sottoutilizzata nei contesti professionali.

Per comprendere la diffusa diffidenza verso la vita emotiva occorre ricordare che le passioni e le emozioni sono state rappresentate da sempre come forze pericolose e perturbanti, temute o negate, nascoste nei nostri labirinti interiori, come il Minotauro del mito. In questi labirinti è possibile perdersi o soccombere se non siamo, come Teseo, guidati dal filo che simboleggia la ragione: non diciamo forse ancora “il filo del ragionamento” o “il filo del discorso”? Alla ragione è stato assegnato il compito di sottomettere, illuminare ed incanalare la vita emotiva. Ed è difficile riconoscere e ammettere un ruolo positivo per le emozioni e i sentimenti negli ambiti scientifici e nei processi decisionali dove predomina ancora una forte impronta cartesiana. Cartesio ha assegnato infatti un primato assoluto alla ratio, al pensiero (cogito ergo sum, penso dunque sono). Per la ragione matematizzante il sentire è un’interferenza oscura che si insinua come un virus. Nella sua ultima opera Le passioni dell’anima (1649), egli definisce le emozioni “spiriti animali”. Al contrario Pascal (non meno geniale matematico e fisico) in quegli stessi anni, affermava l’importanza del sentire e all’esprit de géométrie cartesiano contrapponeva l’ordine del cuore per giungere alla conoscenza, dove la ragione mostra i suoi limiti: “noi conosciamo non solo con la ragione ma anche con il cuore” e “il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”. Ma la logica cartesiana ha mantenuto un ruolo predominante. La cultura illuminista e quella positivista hanno sempre più radicalizzato la separazione-contrapposizione tra il cervello e il cuore, il pensare e il sentire, il logos e il pathos, la ragione e i sentimenti, attribuendo ai termini della ragione un valore di attendibilità maggiore rispetto all’incertezza e all’opinabilità dei termini contrapposti.

Difendersi dunque dall’irrompere del sentire o coltivarlo come risorsa professionale? Questa breve digressione filosofica ci apre la comprensione delle ricadute professionali, aziendali, economiche e politiche dell’intelligenza emotiva. Lo psicologo statunitense Daniel Goleman pubblica nel 1995 il suo testo Emotional intelligence in cui afferma che l’intelligenza è presente anche nelle emozioni: nel concetto di intelligenza emotiva i due termini che la tradizione ci aveva consegnato come antitetici, l’intelligenza e le emozioni, sono congiunti. L’intelligenza emotiva è un’abilità irrinunciabile e molte recenti ricerche ne hanno mostrato l’importanza nei contesti aziendali. Ad esempio uno studio in oltre 200 fra le maggiori società mondiali ha evidenziato differenze tra le performance dei “top manager” riconducibili per il 30% a diversità di conoscenze, per il 70% a differenze nella competenza emozionale. Così pure una ricerca condotta presso L’Oreal, ha evidenziato che chi è selezionato in base alle competenze emotive mostra un rendimento lavorativo nettamente superiore (103% in più nelle vendite e un turnover ridotto del 63%). Sono gli studi delle recenti neuroscienze a confermare che separare mente e sentimenti, ragione ed emozione, non solo è impossibile ma è dannoso. Il neuroscienziato statunitense Antonio Damasio studia casi di pazienti che hanno subito lesioni cerebrali – rimasti capaci di “sapere ma non sentire” – evidenziano inequivocabilmente che, senza emozioni, questi pazienti non riescono ad agire, a scegliere o anche solo a comprendere ciò che accade. Damasio intitola significativamente il suo volume L’errore di Cartesio, e afferma che “la capacità di esprimere e di sentire delle emozioni è indispensabile per attuare dei comportamenti razionali”.

In ambito economico, possiamo notare il medesimo percorso: la concezione cartesiana che dominava l’economia classica, concepita come scienza basata sui canoni di neutralità e impersonalità, spiega il comportamento dell’homo oeconomicus in senso puramente razionale. La tradizione tayloristica ci consegna una visione anaffettiva e de-emozionalizzata delle organizzazioni dove, in nome della razionalità, si considera la vita emotiva come un “rumore di fondo”, un’interferenza, un “disturbo” da reprimere o da eliminare perché inutile o fuorviante nelle scelte produttive, economiche e finanziarie: un ostacolo. Ma oggi l’economia comportamentale aziendale e la finanza comportamentale indicano come le decisioni economiche nella gestione del denaro e nella valutazione degli asset, che si riflettono nei prezzi di mercato, nell'allocazione delle risorse, negli investimenti, siano fortemente connotate dalla valenza emotiva. Le decisioni, soprattutto in condizioni d'incertezza (come quella attuale), non seguono unicamente analisi e valutazioni logico-razionali. E la vita stessa delle organizzazioni (qualunque organizzazione) è profondamente intessuta di vissuti ad alta densità emotiva: rabbia, paura, soddisfazione, sconforto, gioia, desiderio, rancore, orgoglio.

Se il mercato ha “sentimenti”, se l’azienda è luogo di emozioni, allora il “sapere dei sentimenti”, spesso ignorato nei contesti lavorativi, è una risorsa da riconoscere, legittimare, coltivare, accanto (e non in contrapposizione) alle competenze tecniche. Le competenze emotive sono indispensabili per produrre ben-essere aziendale sul versante delle relazioni, della gestione dei conflitti, della motivazione del team, dell’ottimizzazione delle riunioni e, in definitiva, della produttività. Questa competenza non solo è necessaria all’interno, per migliorare il clima aziendale, ma anche verso l’esterno, per il mercato, per entrare in sintonia con i clienti, capire quello che si aspettano, per creare relazioni fiduciarie, per accrescere l’affidabilità e migliorare l’immagine aziendale esterna. E dunque per dare una spinta alla ripartenza dell'economia e del lavoro.

Photo by Tengyart on Unsplash


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