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La foresta pietrificata dei fondi per il sociale

I bisogni cambiano, ma i criteri in base ai quali lo Stato distribuisce alle Regioni le risorse del Fondo nazionale delle politiche sociali (391,7 mln nel 2019) sono gli stessi da 4 lustri. Risultato? Il sistema non incentiva né le Regioni che aggiungono risorse né quelle che (col contributo del Terzo settore) migliorano i servizi

di Francesco Dente

Fermi a inizio secolo. Congelati ormai da un ventennio e, quel che è più grave, destinati a rimanere sotto il ghiaccio per chissà quanto tempo ancora. Parliamo dei criteri in base ai quali lo Stato distribuisce alle Regioni le risorse del Fondo nazionale delle politiche sociali (391,7 mln nel 2019), il cosiddetto “fondo indistinto” nato nel 1997. Il Fondo e il Piano sociale nazionale, secondo la 328/2000 sul sistema integrato dei servizi sociali, sono i due binari su cui avrebbero dovuto procedere le politiche di welfare. Peccato che il fondo sia stato finanziato con alterne fortune (addirittura zero risorse nel 2012), tanto da rendere impossibile la realizzazione dei livelli essenziali delle prestazioni, mentre il Piano abbia visto la luce solo nel 2018. Dopo 17 anni dal primo. Nel frattempo i criteri di assegnazione alle Regioni non sono mai cambiati. Sempre le stesse percentuali, salvo la redistribuzione delle quote non più attribuite a Trento e Bolzano. Come se la mappa dei bisogni sociali non fosse mai mutata.

Lo stesso Piano sociale quando rileva che, vista l’eterogeneità della spesa sociale regionale e la limitatezza dei finanziamenti del Fondo nazionale, si è preferito lasciare immutate le percentuali per evitare che chiudessero «i pochi servizi attivati» nei contesti meno avanzati. «Lo Stato quando trova la sintesi con le Regioni non la tocca perché sa che è un terreno scivoloso», ragiona Franco Pesaresi, esperto di welfare e direttore generale dell’Azienda servizi alla persona Ambito 9 di Jesi. Il punto è che quei parametri sono ormai una foto vecchia e sfuocata.

In questo ventennio segnato anche dal passaggio nel 2001 della competenza sul welfare alle Regioni, i governi peraltro hanno moltiplicato i fondi sociali settoriali. Una logica opposta alla 328 che puntava a dar vita a un contenitore unico. Non solo. Proprio le quote di riparto del Fondo nazionale delle politiche sociali sono utilizzate per suddividere fra le Regioni le risorse del Fondo nazionale per le non autosufficienze (573,2 mln). Ben il 40%. Il restante 60% è attribuito invece in base al numero di residenti ultra 75enni. Anche le risorse per il Dopo di noi (56,1 mln) sono (interamente) suddivise sulla base della popolazione regionale d’età 18-64. I criteri di riparto di questi tre fondi dunque, quando non sono obsoleti sono ponderati su parametri demografici molto ampi. Un limite che rimarca la mancanza di un sistema informativo nazionale dei servizi sociali. «Spesso i dati sono raccolti e archiviati a livelli diversi da quelli in cui si possono fare le scelte», fa notare Giuseppe Guerini, presidente della Confederazione europea delle cooperative di lavoro e di servizi.

Ma come ridisegnare i criteri di riparto? Prevedendo magari premialità per le Regioni che investono fondi propri o che raggiungono determinati obiettivi. Il meccanismo del bonus per il cofinanziamento ad esempio è già usato per la ripartizione del 10% del Fondo affitti. Il sistema dunque non incentiva né le Regioni che aggiungono risorse né quelle che (col contributo del Terzo settore) migliorano i servizi. «C’è il rischio però che le aree deboli del Paese i cui amministratori non attuano comportamenti virtuosi siano penalizzate due volte dai premi: meno risorse locali e meno dal centro», mette in guardia Luca Beltrametti, economista dell’ateneo di Genova. Per assegnare le “ricompense” ai risultati servirebbe un sistema di valutazione. Che tarda a decollare. «Essendo il sistema sociale povero è stato costretto a spendere tutto per organizzare risposte più che per valutarle», chiosa Guerini.


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