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Fare scuola fuori dalla scuola o far fuori la scuola?

In questi mesi si è molto parlato di "educazione diffusa". Col tempo, l'idea di una scuola che uscisse da sé per allearsi con la città sembra essersi ridotta all'affitto di spazi o a fare lezione all'aperto. Niente di tutto ciò, spiega Paolo Mottana: «La mia non è una proposta pedagogica di cambiamento sociale. Io non voglio cambiare la scuola, voglio che la scuola sparisca e che i ragazzi tornino a vivere nel mondo»

di Sara De Carli

C’è la legittima paura del virus, legata alla presenza di più di venti persone in uno spazio chiuso per 4-5-6 ore di fila. C’è l’incertezza: sugli orari della scuola, su quanto durerà la didattica in presenza, su cosa capiterà al primo bambino con febbre, sugli strumenti con cui conciliare (di nuovo) l’avere i figli a casa da scuola e il lavoro. In questa condizione si fa strada (è una nicchia, certo, ma è un indizio) quella che Chiara Saraceno su Repubblica l’altro giorno ha chiamato la «tentazione di fare da sé» e di «farsi la scuola in casa»: lasciare la scuola per passare all’educazione parentale o per assumere un insegnante privato, magari mettendo insieme due o tre altre famiglie per condividere i costi.

«Le proposte descolarizzatrici hanno in realtà una lunga tradizione, da Fourier a Ivan Illich, penso anche al nostro Papini», dice Paolo Mottana, professore di filosofia dell'educazione e di Ermeneutica della formazione e pratiche immaginali all'Università di Milano Bicocca. Insieme a Giuseppe Campagnola ha immaginato e teorizzato la “città educante” (2016) e “l’educazione diffusa” (2020): un modello che «si inserisce in quella tradizione e che non vuole solo proporre una scuola al di fuori della scuola, ma dissolvere l’idea che la scuola sia la sede adatta per l’educazione dei bambini e dei ragazzi».

Scuola diffusa è un’espressione che in questi mesi abbiamo sentito ripetere spesso: quasi sconosciuta prima del lockdown – quando la scuola così come era veniva per lo più data per scontata – è diventata l’etichetta per esprimere il desiderio di un rinnovamento della scuola “di prima”, finendo però talvolta a indicare in maniera confusa l’idea di fare scuola in spazi esterni alla scuola. Il punto però (come poi si è visto durante l’estate) non è tanto l'uscire da scuola quanto l'uscire da scuola per fare cosa? Per affittare spazi, sull’onda dell’emergenza e delle nuove (provvisorie si spera) regole sul distanziamento, in cui fare le stesse cose di prima? Troppo poco.

Professore, la scuola che esce da scuola è un'occasione? Uscire da scuola per fare cosa?
Uscire da scuola non certo per tornarci appena l’epidemia lo consentirà… No, qui si tratta di uscire dall’idea di scuola. Non fare scuola fuori dalla scuola, ma far fuori la scuola. Andare a fare lezione nei boschi, come ho troppo spesso sentito, è un paradosso. Andare nei boschi significa andare nei boschi per scoprire gli uccelli, gli animali che ci vivono, per scoprire la natura e subirne gli effetti senza idealizzarla – come fanno tante scuoline nel bosco che diventano così le parenti povere del romanticismo – perché natura è anche paura, cataclismi, morte. Andare nei boschi significa fare i conti con la nostra natura umana, con i nostri istinti, tutte cose che l’educazione ha abilmente evitato. Ma non c’è solo il bosco. C’è la città, la società civile, che offre infinite esperienze: da molto tempo, invece, la società è costruita in modo che i bambini non ne facciano parte, gli adulti hanno pensato di “recluderli” in alcuni spazi a loro destinati, dove non recano disturbo – pensi ai centri estivi quest’estate – e ovunque altrove hanno creato un mondo che non è abitabile dai bambini. La nostra società è pericolosa per i bambini. Ma allora vuol dire che abbiamo un problema con tutte le persone che come i bambini sono deboli, poco autonomi: città e società escludono anche altre fette di popolazione e di esperienza.

Uscire da scuola per fare cosa? Non certo per tornarci appena l’epidemia lo consentirà… No, qui si tratta di uscire dall’idea di scuola. Non fare scuola fuori dalla scuola, ma far fuori la scuola. Andare a fare lezione nei boschi, come ho troppo spesso sentito, è un paradosso: andare nei boschi deve significare scoprire gli uccelli, gli animali che ci vivono, scoprire la natura e subirne gli effetti senza idealizzarla.

Paolo Mottana

Lei usa una parola forte: la scuola addirittura come luogo di reclusione?
Io definisco la scuola come un dispositivo diairetico – diairesi significa scindere – che concentra molti bambini insieme. È un piccolo luogo di concentramento dove la vita di fuori è separata dalla vita di dentro, dove le età sono separate, dove i saperi sono separati invece di essere un tutt’uno, un’esperienza vitale. Tutto è sottoposto a procedure disciplinari. Ma i ragazzi meritano molto meglio! Una società sensata che avesse occhi e tatto dovrebbe svegliarsi e capire che i ragazzi hanno bisogno di tutt’altro che studiare storia romana e algebra: hanno bisogno di esercitarsi in esperienze vitali, dove esperienza indica precisamente l’essere coinvolti totalmente, con la mente, l’emozione, l’immaginazione, la creazione e il corpo che è il grande represso della scolarizzazione di massa. Il corpo al contrario è la sede più opportuna di qualsiasi esperienza. Bambini e ragazzi devono tornare nel mondo.

Nei mesi passati i bambini e i ragazzi sono stati invisibili, dimenticati, rimossi.
Però occorre rivendicare che i bambini siano ripresi in considerazione non solo dagli esperti del CTS ma dalla società tutta, a cominciare dai genitori, che si rendano conto che affidano i loro figli per lunghissimi anni a un organismo totalitario di cui bambini sono vittime, dove i loro talenti non vengono valorizzati e che non riconosce i loro diritti più banali, quello di muoversi, di prendere parola quando vogliono, cose minimali che però fanno parte della libertà di un soggetto…. Spesso anche gli insegnanti sono vittime di questo dispositivo. Bambini e ragazzi tornino nel mondo per essere riconosciuti come soggetti a pieno titolo, da subito capaci di dire la loro, di decidere, di collaborare: lo sappiamo tutti che i bambini sono straordinari finché non sono sabotati da noi adulti. Devono tornare in gioco. Anche perché non averli nel mondo e nelle città è una perdita secca per tutta la società, che infatti ormai non sa più fare i conti con dimensione più vitale dell’esperienza umana. Dobbiamo riprendere con noi i nostri bambini e dedicare un po’ più di tempo a stare con loro, tutti, anche chi non ha figli. Chi non ha mai vissuto con un gruppo di ragazzi in esperienza vitale non sa cosa si perde, significa riscoprire la vita: credo sarebbe risanante per tutti, non solo per loro.

La società dovrebbe svegliarsi e capire che i ragazzi hanno bisogno di tutt’altro che studiare storia romana e algebra: hanno bisogno di esercitarsi in esperienze vitali, dove esperienza indica precisamente l’essere coinvolti totalmente, con la mente, l’emozione, l’immaginazione, la creazione e il corpo che è il grande represso della scolarizzazione di massa. Il corpo è la sede più opportuna di qualsiasi esperienza. Bambini e ragazzi devono tornare nel mondo.

Paolo Mottana

Tutto questo concretamente, come si può tradurre?
Fare esperienze nella realtà (fatto salvo che la realtà così com’è oggi, essendo inospitale, va prima preparata) significa pensare a un nuovo curricolo, fondato non su materie o discipline frutto della schizofrenia illuministica ma sulle aree di esperienza nei servizi: accompagnare altri bambini più piccoli negli spostamenti, fare spesa, portare i pasti ai senza fissa dimora… sono occasioni di protagonismo e di incontro vero con realtà vere. I bambini devono incontrare la realtà per esserne stimolati. Possono poi lavorare, non per essere sfruttati ovviamente, ma nel senso di provare a fare dei lavori veri: fare il pane, servire in un bar, riparare una bicicletta… superando la fissa dei laboratorio che simula e fa per finta per fare davvero, accanto a persone che fanno sul serio. Poi c’è la natura, in tutti i suoi risvolti: il trekking, lo sperimentare luoghi selvaggi, sono esperienze che oggi mancano totalmente ai ragazzi. E ancora la cultura simbolica, arte, cinema, teatro, danza, letteratura… loro hanno bisogno di esprimersi e conoscere, è una dimensione da attraversare molto più di adesso. Immergersi nel mondo significa scoprire la scienza nel suo farsi e non sui manuali. Il corpo in tutto questo è centrale, inteso nella sua pienezza, non come qualcosa a cui far fare movimento, partendo dall’autoconoscenza del corpo, sconosciuta nel nostro mondo educativo. Bisogna ricongiungere la frantumazione del sapere che la scuola propone, per esperienze vissute, coinvolgenti, in cui i bambini e i ragazzi si sentano soggetti e siano riconosciuti come portatori di sapere, con le loro intuizioni, la spontaneità, il divertimento, la gioia, la loro bellezza.

Bisogna ricongiungere la frantumazione del sapere che la scuola propone, per esperienze vissute, coinvolgenti, in cui i bambini e i ragazzi si sentano soggetti e siano riconosciuti come portatori di sapere, con le loro intuizioni, la spontaneità, il divertimento, la gioia, la loro bellezza. Ma non è l’homeschooling la soluzione, i bambini non devono restare chiusi in casa con la famiglia: i bambini hanno bisogno di stare nel mondo

Quali esperienze ci sono?
Abbiamo avviato un’esperienza a Gubbio, abbiamo fatto un anno di formazione e un anno scolastico, è un gruppetto di ragazzi della secondaria di primo grado ma hanno mescolato le età. Piano piano, perché partiamo da molto lontano. I genitori sono un perno fondamentale e vedo questo fermento di genitori che cominciano a dire "basta, in una scuola così i miei figli non ce li mando più" e quest’anno li terranno a casa. Ma non è l’homeschooling la soluzione, i bambini non devono restare chiusi in casa con la famiglia, i bambini hanno bisogno di stare nel mondo. L’educazione parentale è già diversa, perché le famiglie si si mettono insieme, si creano patti territoriali…

Che si parli tanto di scuola diffusa è un primo passo per cambiare qualcosa e contaminare l’esistente?
In questi mesi ho visto molto fermento, in molti hanno usato il termine “scuola dffusa” che però a me pare un ibrido strano. Non so quanto durerà, non mi pare che ai piani alti sia stato recepito… temo che la via più battuta sarà quella della ingegnerizzazione della scuola e della dad, invece che scegliere una strada molto controcorrente che però farebbe bene a tutti. Perché la mia non è una proposta pedagogica ma sociale, di cambiamento sociale. Altrimenti sarebbe una delle tante propostine di riforma della scuola. Io non voglio cambiare la scuola, voglio che la scuola sparisca.

Photo by Marcus Wallis on Unsplash


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