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Delirio-Covid, l’urlo di Agamben

Accanto e oltre l'epidemia propriamente intesa, si è affermata una dimensione del "Security State" che sta ridefinendo le forme della politica. Il filosofo Giorgio Agamben è stato tra i primi a mettere in guardia da questo nuovo paradigma del controllo sociale

di Carmine Castoro

Un poliziotto che irrompe sulla pista di una discoteca e allontana alcuni ragazzi troppo compressi nel vortice delle danze estive. I bollettini di guerra giornalieri che contano battiti, ansie, ricoveri, decessi. Il divieto in Spagna di fumare per strada, perché ormai anche il nostro respiro è tox, e l’”aerosol” di una boccata di sigaro è un tappetino impalpabile di particelle mortifere.

Il "civismo superlativo"

Scene di “bioterrorismo” alle quali ci siamo tristemente abituati nelle ultime settimane, innescate stavolta non da oscure falangi fondamentaliste e da improbabili predatori del mondo, ma dai governi e dalle loro terribili (inaggirabili?) ingiunzioni sulle popolazioni. Il confusionarismo dei medici, l’incapacità gestionale dei leader, il collasso della parola pubblica, la paranoia che diventa merce nelle fauci di una casta di giornalisti senza scrupoli, mentitori e insabbiatori professionisti, sono l’indegno corollario di un problema sanitario diventato monstre, senza riparo, a tempo indeterminato, ben decostruito in una raccolta di testi scritti e interviste concesse proprio nel periodo della “pandemia” dal grande filosofo Giorgio Agamben, dal titolo A che punto siamo? (Quodilibet, pagg. 106, euro 10).

Abbiamo abdicato alle nostre relazioni, ci dice l’autore, in nome di un rischio che esulcera le incertezze, aumenta le celebrazioni e i dispositivi protettivo-repressivi sull’ordinario: muta il nostro linguaggio, facendoci familiarizzare con la prossimità in termini di “assembramento”, con la cittadinanza e la reliance in termini di “distanziamento”, sostituendo la “nuda vita” agli orizzonti di senso e aggregazione del vivere comune e, sull’onda delle tesi di Zylberman, producendo una sorta di “civismo superlativo in cui gli obblighi imposti vengono presentati come prove di altruismo e il cittadino non ha più un diritto alla salute ma diventa giuridicamente obbligato alla salute”.

Biosicurezza e biopolitica

La Biosicurezza è ormai Biopolitica diffusa e centralizzata di uno Stato che intende, all’improvviso, spazzare qualsiasi nocività ambientale e combattere infezioni e mortalità con la spada, le multe, l’isolazionismo e le manie persecutorie del singolo inerme; diventa una Tanatopolitica, una governance ben orchestrata dello spavento, del pericolo imminente e dell’ibernazione collettiva. Ecco allora il tanto bistrattato “stato di eccezione” su cui ingiustamente un maestro come Agamben è stato attaccato e ridicolizzato da tanti intellettualoidi à la page: un Security State, igienista e ultrarazionalista, ci condanna a una nebbiosa fragilità e a un’adesione fideistica a certi diktat di cui Hitler, come sottolinea il controverso saggista, sullo sfondo della Storia, sapeva e praticava già molto.

La questione, dunque, si pone al centro di una cruciale biforcazione. Il Covid secondo Agamben reinaugura la Krisis ippocratica: la degenza e la sofferenza come una sorta di certamen che il medico ingaggia col corpo dolente, senza alcuna prospettiva di guarigione assicurata. Così come il Capitalismo, diversamente dalle teofanie, disfa e distrugge in una proficua e mai paga incorporazione del Male e del negativo. Da qui l’idea di un Potere che, nel rinvio e nella procrastinazione della palingenesi e della rinascita, organizza in maniera tassativa, integrale, tetragona condotte ed esercizi di libertà, legando a questo immane traino la possibilità di un eschaton che chissà mai se avverrà. Potere ancor più crudo, perciò, perché nella dilazione lascia intravedere senza conferire una nuova patente di bontà alle cose e agli animi, ma suppliziandoli con una penitenza infinita del fare e del pensare solo e soltanto in una certa direzione.

Se poi questo piano dell’ulteriorità non fosse solo un’ombra che intanto si conficca nei nostri piani di vita costringendoci ad essere cittadini proni e impauriti, sotto la sferza di una sorveglianza inaudita, ma diventasse autocoscienza profonda e comprensione di come epidemie e rischi ambientali siano il cuore marcio di un neoliberismo che ha seminato solo distruzione, deserto, veleno e parassitismo per colpa di un industrialismo furibondo, beh allora ci troveremmo di fronte a una rupture critico-epistemologica non debilitante ma vigorosa e rigenerante, che è la prospettiva di riflessione di altri due testi: Nel contagio di Paolo Giordano (Einaudi, pagg. 63, euro 10) e La crudele pedagogia del virus di Boaventura de Sousa Santos (Castelvecchi, pagg. 44, euro 6.50).

Il tempo delle cospirazioni oggettive

Se per Giordano è chiaro che “l’epidemia c’incoraggia a pensarci come appartenenti a una collettività”, poiché siamo una comunità, “un organismo unico” e dobbiamo creare un contesto significativo intorno a quanto successo da febbraio, in termini di lotta alla deforestazione, alla invasività antropica sugli habitat e le varietà faunistiche, e agli allevamenti intensivi, il sociologo portoghese è ancora più chiaro: “il tempo politico e mediatico condiziona il modo in cui la società contemporanea si rende conto dei rischi che corre”.

Dei 7 milioni di persone, per esempio, che ogni anno muoiono per inquinamento atmosferico, del count down cominciato da tanto tempo rispetto alle catastrofi climatiche, dei problemi di salute, di crisi idrica, di condizioni igienico-sanitarie scadenti, di affollamento demografico, e di ghettizzazione spietata di intere etnie – tutti fattori acceleranti il Covid – che ce ne facciamo? In pratica nulla, perché le misperception televisive e istituzionali virano verso tutt’altro.

Agamben le chiama “cospirazioni oggettive”: nessun despota, ma derive di utilità che precipitano a valle occhi menti e cuori. Il sociale si dissolve anche così: in diretta streaming.


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