Sanità & Ricerca

«Per aiutare i malati di Alzheimer puntiamo sulla telemedicina»

Durante il lockdown i cambiamenti della routine quotidiana e la riduzione di stimoli emotivi, sociali e fisici hanno incrementato i disturbi comportamentali nel 60% dei pazienti affetti da demenza. Amalia Bruni, la scienziata che nel 1995 ha individuato il gene dell’Alzheimer, spiega come sia «urgente che le esperienze proficue sperimentate durante la fase emergenziale vengano messe a sistema»

di Sabina Pignataro

«Il lockdown ha indotto un gravissimo peggioramento dei disturbi comportamentali nel 60% dei pazienti affetti da demenza (tra cui i malati di Alzheimer) ma le perdite si sono avute anche sulla cognitività e sulle capacità motorie. I dati preliminari dei controlli effettuati dopo la fine del lockdown sembrano suggerire che non ci siano possibilità di recupero». A tracciare questo quadro drammatico è Amalia Bruni, la scienziata che nel 1995 ha individuato il gene dell’Alzheimer, la presenilina 1, e che dirige il Centro Regionale di Neurogenetica dell’ospedale Giovanni Paolo II di Lamezia Terme, presidio di rilevanza mondiale per lo studio delle demenze degenerative.

La metafora che la dottoressa utilizza è quella del piano inclinato: «pur nella variabilità della malattia fin’ora è stato possibile, grosso modo, predire l’evoluzione della malattia: una progressione negativa costante, come quando un corpo scivola lungo il piano inclinato. Il lockdown invece ha fatto compiere un crollo nella storia naturale della malattia, facendo saltare ogni previsione».

La ricerca durante la pandemia
Come dimostra la survey del Gruppo di Studio sul COVID-19 della Società Italiana di Neurologia per le demenze (SINdem), condotta su 4.913 familiari e con il coinvolgimento di 87 Centri specializzati in tutta Italia, «i cambiamenti della routine quotidiana e la riduzione di stimoli emotivi, sociali e fisici (come raccontavamo in questa intervista) hanno rappresentato un detonatore per l’incremento rapido di disturbi neuropsichiatrici: i sintomi riportati più frequentemente sono stati l’irritabilità (40%), l’agitazione (31%), l’apatia (35%), l’ansia (29%) e la depressione (25%) e in un oltre un quarto dei casi questa nuova condizione era tale da richiedere la modifica del trattamento farmacologico». Anche i familiari dei pazienti hanno risentito in modo significativo degli effetti acuti del lockdown con evidenti sintomi di stress in oltre il 65% degli intervistati.

Un aiuto dalla telemedicina
Per cercare di comprendere cosa stesse succedendo agli ammalati chiusi nelle proprie case gli specialisti hanno rivoluzionato, ciascuno a modo proprio, il sistema di presa in carico, di cura e di assistenza. Non potendo procedere con le visite vis à vis, c’è stato chi ha usato il proprio telefono, chi il computer, chi ha fatto videochiamate. «Durante il lockdown la tecnologia e la telemedicina ci hanno permesso di rimanere vicino alle famiglie e ai pazienti», racconta Bruni. «Ora però è fondamentale ed urgente che tutte le esperienze positive e proficue sperimentate durante questa fase emergenziale vengano messe a sistema e siano disponibili, in maniera omogenea ed integrata, in tutti le strutture di cura: dagli ambulatori agli ospedali, alle residenze per anziani, passando per gli Alzheimer cafè e i centri diurni».

Bruni racconta la difficoltà di accogliere negli ambulatori i pazienti affetti di demenza, la fatica di far indossare loro la mascherina, i calzari, i guanti. «Anche se noi medici indossiamo una visiera, loro non ci riconoscono, si sentono spaventati, confusi, in qualche situazione si agitano, sono spaventati da una realtà che non capiscono. Per questo pensiamo che la telemedicina sia ora, più che mai, lo strumento più valido». Uno strumento, però, sottolinea Bruni, che «va urgentemente normato, affinchè anche le visite tramite tecnologia possano essere richieste (e remunerate) tramite ricetta, e affinché la privacy di pazienti ed operatori possa essere tutelata».

Alle istituzioni competenti, il Ministero della Salute e le Regioni, spetta il compito di accelerare il processo di riorganizzazione dei servizi assistenziali per le patologie neurodegenerative, «tenendo in conto – sottolinea la scienziata – la necessità di monitoraggio e supporto a distanza in modo continuativo e flessibile», per non trovarsi impreparati qualora lo scenario epidemiologico futuro dovesse peggiorare e imporre ulteriori misure restrittive.


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