Sanità & Ricerca

Per un rilancio della medicina territoriale

Se vogliamo tutelare le fasce di popolazione più esposte, perché anziane o affette da patologie cronico-degenerative sarà auspicabile indirizzare le politiche di scelta allocativa delle risorse verso quattro direzioni fondamentali: il riequilibrio tra ospedale e comunità, l’offerta di servizi e strutture a carattere socio-assistenziale, una maggior coinvolgimento delle professioni sanitarie, e maggiori investimenti in tecnologie digitali. La possibilità di nuove risorse europee rappresenta l’occasione giusta. Se colta

di Matteo Ruggeri* e Angelo Palmieri

L’attuale emergenza sanitaria causata dal covid-19 sollecita l’adozione di nuove policy che siano in grado di affrontare due questioni centrali: un rilancio dei servizi socio-sanitari territoriali, già particolarmente carenti in molte Regioni – con riferimento ad esempio alle cure domiciliari – e una più efficace gestione dei processi di integrazione ospedale – medicina territoriale.
Gli ultimi dati sulla sperimentazione del Nuovo Sistema Nazionale di Garanzia dei Livelli Essenziali di Assistenza, condotta dal Ministero della Salute e dalle Regioni, rilevano che ben dieci Regioni risultano inadempienti nel garantire i livelli essenziali di assistenza sanitaria distrettuale. Siamo sotto la media europea (4%) per quanto riguarda l’accesso ai servizi domiciliari; nel 2015 solo l’1,2% di anziani over 65 ha beneficiato di interventi in regime ADI (Istat, 2019). A ciascun paziente sono state garantite mediamente venti ore annue di interventi in ADI (Annuario Statistico SSN, 2017). Dei 2,5 milioni di anziani non autosufficienti, sono stati assistiti a domicilio 1.014.626 pazienti nel 2017, con l’8,8% rappresentato da pazienti terminali. (Annuario Statistico SSN, 2017).

Registriamo inoltre significative disparità territoriali nell’accesso ai servizi domiciliari: dal 4% di anziani over 65 trattati in ADI in Veneto al 2% della Campania, Puglia e Calabria (Monitoraggio Lea anno 2017). Altro elemento non secondario è la carenza di personale sanitario e infermieristico (quest’ultimo in parte superato con il Decreto Rilancio a fronte di una
carenza di circa 30.000 unità).

È evidente, alla luce del quadro sopraindicato, che per poter rilanciare il tema dell’assistenza territoriale, come secondo pilastro del Servizio sanitario nazionale, si rende necessario un piano di investimento che sappia allocare le risorse non senza una chiara visione strategica; riteniamo ad esempio fondamentale la figura dell’infermiere di famiglia e di comunità introdotta dal Patto per la Salute 2019-2021 e prevista dall’ultimo Decreto Rilancio; basti pensare all’aumentata incidenza della domanda di salute legata alla prevalenza delle malattie cronico degenerative e della disabilità nelle sue varie forme.

Altra questione centrale, che affiora con sempre più insistenza nel dibattito di questi giorni, è riconducibile al tema di una maggiore integrazione ospedale-territorio e alla necessità di coordinare comportamenti e azioni che fanno riferimento a organizzazioni, figure assistenziali e sistemi assistenziali differenti. L’area dell’integrazione richiede un cambiamento di prospettiva rilevante nell’azione organizzativa, con un focus organizzativo che si sposta da strutture gerarchiche e funzioni organizzative, a processi (a valenza sociale, clinica e riabilitativa) incentrati sul paziente-persona (Palmieri, Mascia 2009).

Riteniamo prioritaria la necessità di ripensare strategicamente a nuovi piani di gestione delle cronicità e delle fragilità da potenziare a scopi preventivi a livello distrettuale, con il concorso della medicina generale, le aziende ospedaliere e gli enti del terzo settore; quest’ultimi, a nostro parere, rappresentano la leva per attivare processi reali di cambiamento dinanzi alle grandi sfide sanitarie ed economico-sociali. Sarà necessario predisporre sistemi di servizi sociosanitari capaci di contemperare azioni di miglioramento della qualità e di risposta efficace ai bisogni della domanda, spostando l’attenzione sul territorio quale soggetto attivo che intercetti il bisogno sanitario e si faccia carico in modo unitario e integrale delle necessità sanitarie e socio-assistenziali del cittadino-paziente. In sostanza si tratta di ripensare ad una medicina che poggi saldamente su logiche, su approcci nuovi, su una visione comunitaria. Progettare un intervento di risposta al bisogno di salute di una persona presuppone un riferimento ad una logica inclusiva della componente sociale (care) e sanitaria (cure).

In tale prospettiva assume sempre maggiore rilevanza il ripensamento dei ruoli professionali in sanità con il coinvolgimento più ampio di figure differenti da quelle del medico, come ad esempio il farmacista, l’operatore di comunità, insomma di persone che si occupino di attività integrative e sussidiarie rispetto a quelle di cura ed assistenza in senso stretto, come l'educazione e monitoraggio, assicurando così una valorizzazione dei servizi alla persona e una tenuta della continuità assistenziale sul territorio soprattutto a salvaguardia delle categorie più fragili. Dunque occorre ripensare al territorio come ad un sistema in cui il benessere individuale e collettivo è il risultato dell’azione congiunta di più attori e soggetti diversamente collocati e correlati tra loro secondo dinamiche di lavoro in rete.
In tal senso adesso è il tempo favorevole per la sperimentazione di nuove forme associative e assistenziali orientate all’integrazione sociosanitaria e l’implementazione e potenziamento di alcuni modelli istituzionali di integrazione, già previsti nei Piani sociosanitari di molte Regioni (a titolo esemplificativo la Casa della Salute). Modelli che consentirebbero di verificare sia la concreta possibilità di presa in carico del cittadino in riferimento a tutte le attività sociosanitarie sia una maggiore integrazione con le strutture ospedaliere per quanto riguarda le proprie prestazioni.

Questo ripensamento organizzativo, che coinvolge necessariamente anche le pratiche professionali, non potrà tuttavia essere realizzato senza il supporto della tecnologia. Da questo punto di vista, gli investimenti volti a rafforzare i processi di digitalizzazione, con particolare focus sulla telemedicina, appaiono cruciali. La letteratura scientifica di riferimento, attribuisce infatti a tali programmi, soprattutto se applicati in alcune aree patologiche critiche (es.: diabete), un rapporto costo beneficio favorevole. Non è tuttavia da sottovalutare l’importanza che l’umanizzazione delle cure debba rivestire in questo contesto. Una delle critiche maggiori che si fanno infatti ai programmi di telemedicina è la riduzione del contatto dei pazienti con i professionisti sanitari che, se da un lato può garantire la continuità delle cure anche in epoca pandemica, dall’altro potrebbe avere conseguenze sfavorevoli in ordine al buon esito delle cure ed alla qualità dell’assistenza.

Ci sembra dunque, del tutto evidente, che se vogliamo tutelare le fasce di popolazione più esposte, perché anziane o affette da una o più patologie cronico-degenerative – nella previsione di una imminente ripresa significativa dell’epidemia – sarà auspicabile indirizzare le politiche di scelta allocativa delle risorse verso quattro direzioni fondamentali: il riequilibrio tra ospedale e comunità, l’offerta di servizi e strutture a carattere socio-assistenziale, una maggior coinvolgimento delle professioni sanitarie, e maggiori investimenti in tecnologie digitali. La possibilità di nuove risorse europee rappresenta l’occasione per rivedere approcci organizzativi e per colmare gap territoriali i cui effetti risulterebbero oggi più che mai esiziali.

* Ricercatore, Istituto Superiore di Sanità e Professore di Politica economica ed Economia applicata, St Camillus International University of Health and Medical Sciences **Sociologo


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