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Poirot diventa prete… E Finkielkraut ammonisce: la cultura oggi è una palude

Nel suo ultimo libro, il filosofo francese si scaglia contro la "subcultura" mascherata da élitismo culturale

di Carmine Castoro

Cento anni precisi (1920) dall’uscita del primo Poirot, all’opera nella splendida magione di Styles Court su un “misterioso affare” che sancirà una lunga serie di successi letterari e cinematografici della regina britannica del brivido, Agatha Christie, e dei suoi personaggi top: l’investigatore belga dai baffetti impomatati e dalle ghette sempre lucide, e l’arzilla Miss Marple che risolve enigmi feroci fra scodelle, ricami e pettegolezzi paesani.

I primi decenni del Novecento sono la Golden Age dei killer, quelli che si annidano nelle famiglie patriarcali e nei villaggi più sonnecchiosi e routinari, dove si uccide con classe e con snobismo, fra eredità di ricchi e avidi vecchi e il fiuto sopraffino di chi tutto riporta alla coerenza della deduzione.

Ma la notizia è che sta per uscire, a fine novembre, l’ennesima riedizione di “Assassinio sul Nilo”, la seconda a firma di Kenneth Branagh dopo l’”Assassinio sull’Orient-Express” che nel 2017 ha incassato ben 350 milioni di dollari nel mondo al box office.

Ma se Branagh aveva già trasformato l’Hercule dalle leggendarie “celluline grigie” in un omone dai mustacchi circensi arrotolati come quelli di un domatore di leoni, venendo meno non solo al ritratto più pingue e signorile dell’autrice, ma anche all’interpretazione perfetta che ne ha offerto negli anni l’attore David Suchet (meritevole da questo punto di vista di un Oscar alla carriera), la BBC, nella persona di John Malkovich, sembra voglia addirittura creare una serie tv ("La serie infernale" è già andata in onda nel 2018) dove l’impettito 007 che ha risolto decine di casi intricatissimi diventi… un prete, sulla falsa riga del padre Brown di Chesterton, almeno a giudicare dal taglio monastico, ritirato, solitario e malinconico che il regista americano gli ha conferito.

Un meticciato bruto, una rivisitazione tranchant che ha solo l’intento di galvanizzare le curiosità di fan traditi e spettatori occasionali raccolti con l’esca della novità, depauperando un personaggio irripetibile e “sacro”. Spunto della cronaca che porta alla linea critica che segue Alain Finkielkraut in questo suo saggio-diario In prima persona (Marsilio, pagg. 105, euro 15) dove, al netto di ricordi autobiografici, di incontri, bandiere identitarie e ostracismi subiti, mira al cuore delle derive più stranianti e patologiche di una condizione postmoderna (l’”open society”) che tutto divora, che su tutto farnetica, mercuriale e riassemblata fino al parossismo (che dire della influencer Ferragni nelle vesti della Madonna?), “era della requisizione totale” che non trova più posto all’”indisponibile”, alla “meraviglia” e al “ringraziamento”.

La verità è che siamo finiti dritti dritti, con sommo clamore e senza pietà, nel vortice di una logica telecapitalistica dell’atomizzazione dove non esiste il fatto come relazione totalizzata di vita e di concetto, ma solo come dato smembrato e irrigidito, dove verminano “fettine di godimento” – per dirla alla Lacan – delle quali accontentarsi con una frenesia monomaniaca, neo-cinica, neo-melodica finanche, quando ci subordiniamo solo alla loro carezzevole petulanza o inaggirabile invadenza.

Il Potere non è più blindato, centralizzato e repressivo, ma reticolare, diffuso e allucinatorio, ma non meno carcerario e inox, non usa più (o non solo) il volto sfigurato e scellerato dell’interventismo poliziesco, delle punizioni esemplari e delle finestre sbarrate, ma quello amorfo e leggero della seduzione, del consumismo, del ritardo cognitivo, dell’iperrealismo.

Sotto lo sguardo della tecnica, non c’è un qui, non c’è un altrove, non c’è identità, non ci sono sedentarietà né casa propria che tengano; ci sono solo stoccaggi e flussi, mescolanze e passaggi. Le frontiere svaniscono, le nazioni perdono i loro confini, tutto si muove, tutto si sposta, tutto si sostituisce, niente resiste. Gli uomini stessi sono considerati interscambiabili e, colmo dei colmi, si arriva a considerare il trionfo di questo sistema come il raggiungimento del Bene. Questa confusione deve cessare

Alain Finkielkraut

Dice Finkielkraut con accenni disperati: “Sotto lo sguardo della tecnica, non c’è un qui, non c’è un altrove, non c’è identità, non ci sono sedentarietà né casa propria che tengano; ci sono solo stoccaggi e flussi, mescolanze e passaggi. Le frontiere svaniscono, le nazioni perdono i loro confini, tutto si muove, tutto si sposta, tutto si sostituisce, niente resiste. Gli uomini stessi sono considerati interscambiabili e, colmo dei colmi, si arriva a considerare il trionfo di questo sistema come il raggiungimento del Bene. Questa confusione deve cessare”.

Uno sversamento di particolato subculturale – che ci inonda – definisce le coordinate di un sapere micronizzato e paratattico, formato da infinite congiunzioni, senza più l’importanza degli antefatti e delle valutazioni etiche e normative, assiso e assiderato sul presente, dove le esperienze sono solo filamenti depersonalizzati, al massimo aggrovigliati fra essi, o su cui sorvoliamo nella più totale volubilità e svagatezza.

Oggi la palude è cultura. Per avvicinarsi a essa non è più necessario elevarsi… Nella palude dove tutti sguazzano, nessuno è superiore a nessuno. Nessuna gerarchia è valida, nessuna trascendenza è ammessa, l’uguaglianza generalizzata si vendica della grandezza

Alain Finkielkraut

Il filosofo francese mena stilettate a destra e manca in poche pagine fatali, e tutte vanno a segno con precisione chirurgica nel nostro animo cariato e rammollito; ci spiega che non esistono più lingue madri, geni da cui imparare, tradizioni da rispettare, eredità storiche, allori da adorare, ma solo campi commerciali da arare, un globish da usare per ogni spicchio della nostra quotidianità, sempre più nave ferma in mezzo al mare che aspetta controlli e nuove rotte che non arrivano.

Il risultato è, da un lato, un io solipsista, osservatore distaccato e centrifugato, e, dall’altro, una realtà composta da oggetti statici, passivizzati, inenarrabili. “Oggi la palude è cultura. Per avvicinarsi a essa non è più necessario elevarsi… Nella palude dove tutti sguazzano, nessuno è superiore a nessuno. Nessuna gerarchia è valida, nessuna trascendenza è ammessa, l’uguaglianza generalizzata si vendica della grandezza”.

Dobbiamo, allora, cominciare a disinnescare quel chiassoso applausometro attraverso il quale eleggiamo a corifei della vita – conduttori, conduttrici, pseudogiornalisti, pubblicitari, oligarchi – quelli che ne sono solo i nullificatori, gli indottrinatori, i seviziatori, gli anatomo-patologi.

Non hanno forse essi in fronte il segno di morte come il distintivo a forma di teschio dei reparti SS-Totenkopf? Non tracciano essi i sentieri, di sequestro e decesso dell’Umano, dentro un nuovo Olocausto mondiale, come il vecchio Alain insiste nel rammemorare e piangere – legittimamente – quello storico del suo popolo?


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