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«Signora, vuole procedere a sepoltura?»

A Roma una donna ha scoperto una tomba con il proprio nome, dove è stato seppellito il feto a seguito di un aborto terapeutico. Ma qual è il modo in cui a una donna viene chiesto di prendere una decisione in un momento così delicato? La testimonianza di Ilaria: «Non so quale scelta avrei compiuto se fossi stata più informata. Ma so che sette anni fa in quella sala parto è stato leso un mio diritto: quello di scegliere in maniera consapevole. Possiamo occuparci anche di questo?».

di Sabina Pignataro

«Sono anni che seppelliscono feti ed embrioni senza il consenso della donna. Succede in tutta Italia ed è una pratica barbara, consentita dalla legislazione italiana». Con queste parole inizia il racconto di Ilaria, il nome è di fantasia, una donna di Milano che sette anni fa scelse di procedere con un aborto terapeutico a cinque mesi e mezzo di gravidanza, dopo che la malformazione di suo figlio era stata dichiarata «incompatibile con la vita».

«Ero ancora in sala parto, sporca di sangue e avevo appena partorito mio figlio, decretando così la fine della sua vita», racconta Ilaria. «In quel momento entra una dottoressa e mi chiede se intendo procedura con sepoltura. Io sono sconvolta: l’ho appena sentito scivolare tra le mie gambe, dopo quasi 12 ore di travaglio. Sono confusa, non capisco cosa intende. Nel frattempo nella stanza vicino una donna dà l’ultima spinta, caccia l’ultimo urlo, il suo bambino stilla, lei piange di gioia e lo abbraccia. Io vomito. Rispondo no. Firmo non so bene cosa. La dottoressa esce».

Passano gli anni, Ilaria impara ad accogliere quello che lei chiama suo figlio nella propria vita: gli dà un nome, gli trova una spazio tra i propri pensieri, nel proprio vissuto, nelle proprie parole. «Ho capito il perché di quella domanda in sala parto solo anni dopo – prosegue – leggendo un articolo sul giornale. Sette anni fa né il mio ginecologo, né le ostetriche, né le infermiere mi hanno informato di un mio diritto: nessuno mi ha spiegato che se avessi voluto avrei potuto vederlo, abbracciarlo o seppellirlo. È stato tutto confuso, brutale, crudo, selvaggio. Ancora oggi io mi domando dove sia mio figlio e cosa ne sia stato. E non ho pace».

Sette anni fa né il mio ginecologo, né le ostetriche, né le infermiere mi hanno informato di un mio diritto: nessuno mi ha spiegato che se avessi voluto avrei potuto vederlo, abbracciarlo o seppellirlo. È stato tutto confuso, brutale, crudo, selvaggio. Ancora oggi io mi domando dove sia mio figlio e cosa ne sia stato. E non ho pace».

La legge dà alle donne la possibilità di indicare, entro 24 ore, l’intenzione di procedere a sepoltura privata anche per embrioni e feti che sono stati aspirati, espulsi e partoriti sotto le 20 settimane. Se la donna non esplicita questa scelta, la struttura sanitaria può procedere alla sua gestione in base ai propri protocolli e in accordo con la normativa regionale. In alcune regioni (tra cui la Lombardia) tutti gli embrioni e feti che sono stati aspirati, espulsi e partoriti, anche al di sotto delle 20 settimane, vengono portati al cimitero, a meno che la donna manifesti il desiderio di procedere a sepoltura privata. In altre regioni invece è solo dalla ventesima settimana che la struttura sanitaria provvede al seppellimento con inumazione, tumulazione o cremazione. Può capitare, per motivi economici, pratici e burocratici, che l’azienda sanitaria si affidi ad associazioni esterne, laiche oppure cattoliche. In questo casi, i resti (tanto di interruzioni volontarie quanto di aborti spontanei) vengono conservati in ospedale e raccolti dai volontari dall’associazione una volta al mese (o ogni due mesi) e inumati con rito laico o cattolico. Perché questo avvenga, il comune deve aver dato in concessione un lotto del cimitero all’associazione.

Capisco che ci sia una grave lesione della privacy, qualora una donna, come è successo a Roma, rintracci una tomba che riporti il proprio nome: è un fatto gravissimo. Ma penso sia ancora più grave il fatto che una donna non venga informata

«Capisco che ci sia una grave lesione della privacy, qualora una donna, come le cronache riportano essere successo a Roma, rintracci una tomba che riporti il proprio nome: è un fatto gravissimo», commenta Ilaria. «Ma penso sia ancora più grave il fatto che una donna non venga informata».

Il problema, dice Ilaria, è che «sulla gestione di “ciò che resta” e sulla sua destinazione, c’è una totale omertà. Fatto salvo le dovute eccezioni, le strutture ospedaliere non informano le donne o le informano poco e male e le donne a loro volta non interrogano e non si interrogano. Siamo di fronte ad una profonda rimozione sociale. E questo nonostante sia invece molto vivo e infuocato il dibattito sul diritto all'aborto».

Ilaria evidenzia poi una seconda criticità, che ha a che fare con i tempi: «Le 24 ore entro cui attivare una riflessione e manifestare eventualmente una preferenza potrebbero essere un arco di tempo insufficiente. Ovviamente la percezione è soggettiva: c’è chi ritiene che quell'embrione o quel feto sia solo un insieme di cellule, enzimi e proteine e chi invece pensa che sia un corpo (o una parte del proprio corpo), un individuo o un figlio, e magari potrebbe aver bisogno di più tempo e di più informazioni per decidere, a prescindere dal fatto che sia stato un aborto volontario o spontaneo». Ripensando alla sua esperienza, conclude Ilaria, «non so quale scelta avrei compiuto se fossi stata più informata. Ma so che in quella sala parto è stato leso un mio diritto: quello di scegliere in maniera consapevole. Non è poco. Possiamo occuparci anche di questo?».

Photo by John-Mark Smith on Unsplash


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