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Migrazione sanitaria, con la pandemia azzoppati i diritti di cura

Il Covid-19 ha avuto un impatto sui pazienti che arrivano in Lombardia per curarsi. Le proiezioni parlano di un calo atteso del 40% dei viaggi verso i poli sanitari del Nord. L’Associazione a Casa Lontani da Casa propone al Terzo settore di creare una nuova rete di accoglienza, ma su scala nazionale

di Luca Cereda

Tra le tante conseguenze della pandemia da coronavirus c’è l’interruzione dei percorsi terapeutici per molti pazienti che si erano spostati dalla propria regione per avere cure specifiche, spesso complesse. Parliamo di un fenomeno, definito come migrazione sanitaria, che coinvolge in Italia oltre 800mila persone ogni anno, di cui almeno 200mila si dirigono verso la Lombardia.

«A causa delle restrizioni imposte per contenere i contagi durante i mesi primaverili ma anche in seguito, la migrazione sanitaria e la situazione di quei pazienti è diventata a livello sanitario, logistico e umano anche più complessa», spiega la dottoressa Laura Gangeri, psicologa e vicepresidente dell’associazione A Casa Lontani da Casa. Ma cosa è successo ai “migranti sanitari” durante il lockdown? E ancora: che cosa succederà nei prossimi mesi a tutti quei pazienti che necessitano di uno spostamento interregionale verso il Nord e rischiano di essere impossibilitati a farlo?

Migranti sanitari: quale presente e quale futuro
Su questo tema ha deciso di spendersi l’Associazione A Casa Lontani da Casa – punto di riferimento per i servizi gratuiti di ricerca di alloggio all’interno di una rete solidale che coinvolge oltre 50 realtà del Terzo settore dedicate all’accoglienza di persone malate in Lombardia -, invitando al confronto tutte le associazioni: «La pandemia ha inciso sulla vita e sulla salute di centinaia di migliaia di persone, ma che ricaduta ha avuto sui pazienti già in cura per patologie a medio e lungo raggio, in particolar modo quelle che necessitano di spostamenti interregionali? E che impatto avrà sulla migrazione di nuovi pazienti, da oggi in avanti?», si chiede la dottoressa Laura Gangeri.

Migliaia di persone malate, con i loro familiari, in arrivo in Lombardia da tutta Italia in cerca di cure specialistiche e interventi multidisciplinari, nei mesi scorsi sono state costrette a interrompere o rimandare il proprio percorso di cura a causa della chiusura delle Regioni e delle misure applicate nelle strutture sanitarie. E la proiezione della migrazione per il futuro a breve termine parla di un calo almeno del 40% dei viaggi verso i poli specialistici del Nord.

Quale sorte per i famigliari dei pazienti, migranti sanitari?
A fronte di una media mensile di circa 4.000 nuove richieste di persone in cerca di alloggio temporaneo per motivi salute, l’analisi dei dati rilevati dall’Associazione nelle settimane più calde, quelle primaverili, della pandemia mostra un calo del 50% dei contatti, che non hanno infatti superato le 2.000 richieste. E ancora: «L’analisi del traffico di utenti in cerca di informazioni ci dice che sono 3.000 le persone malate che sono state costrette a interrompere o rimandare il proprio percorso di cura con l’avvento della pandemia. Un quadro complessivo rilevante, se si considera la delicatezza delle patologie coinvolte – 15% neurologiche e oltre 40% oncologiche, spiega Gangeri – e le dimensioni del campione analizzato».

Uno degli elementi che compongono il quadro della situazione, riguarda i limiti agli spostamenti sanitari, imposti per fermare il diffondersi del Covid-19, che hanno colpito tutti, ma proprio tutti, i parenti dei malati. «Queste sono figure solitamente molto presenti di fianco alle persone che si spostano per motivi di salute. Tutto ciò ha aggravato ancora di più la situazione delle case di accoglienza che sono abituate a ricevere sia il paziente ma anche uno o più accompagnatori. Inoltre questo ha inciso sulla tenuta psicologica del malato stesso».

Nuove soluzioni per la nuova situazione
Come sta rispondendo il sistema sanitario a questa emergenza nell’emergenza? «Alcuni ospedali hanno risposto con rapidità proponendo come parziale soluzione la “medicina a distanza” per poter assistere i pazienti già in carico, ma hanno certamente registrato un calo significativo dei nuovi accessi», spiega Gangeri. Un trend che conferma quanto rilevato dall’osservatorio interno all’Associazione A Casa Lontani da Casae che apre però a una nuova domanda: cosa può fare il Terzo settore? La risposta la suggerisce Guido Arrigoni, Presidente dell’Associazione: «I risultati del lavoro di rete in Lombardia hanno permesso in pochi anni di triplicare l’intercettazione di persone bisognose di un porto sicuro a cui approdare. Il problema non è mai stato nella capacità di accoglienza del territorio, ma nella difficile reperibilità delle singole strutture. Ora più che mai è urgente un’azione coordinata su tutto il territorio nazionale».

L’Associazione ha quindi avviato un lavoro coeso di mappatura – a partire da Roma, Genova e Firenze – di nuove possibili mete di migrazione in Centro e Sud Italia, e relative case di accoglienza, per ampliare la sua rete a livello nazionale. E per far fronte a un’eventuale impossibilità di spostamento verso regioni come la Lombardia, considerando l’evidenza che mostrano i dati: anche la migrazione sanitaria sta cambiando, così come sono cambiate le nostre abitudini di vita in seguito alla pandemia.

La resilienza dei pazienti lontani da casa
Nuove risposte a un bisogno che si sta trasformando. È il Terzo settore e sono le case di accoglienza e il loro personale ad aver giocato un ruolo fondamentale, sanitario ma soprattutto umanamente terapeutico per queste persone. «I pazienti, soprattutto quelli in difficoltà sono stati esempio di resilienza, perché sono riusciti a costruire con gli operatori e tra ospiti con cui convivevano la coabitazione forzata, rapporti di sostegno e di amicizia anche nella distanza fisica a cui erano sottoposti», spiega la dottoressa Laura Gangeri, vicepresidente dell’associazione A Casa Lontani da Casa.

C’è stato un netto ricorso alle video-chiamate tra i pazienti degenti in Lombardia e le famiglie sparse e costrette nelle loro case, su tutto il territorio nazionale. «Alcune storie che ci sono arrivate raccontano di operatori delle case di accoglienza che usavano i loro smartphone per rendere possibili le chiamate in video».

Cosa fare, visto il protrarsi dello stato di emergenza sanitaria?
«Come Associazione che si occupa dei bisogni sociali dei pazienti, pensiamo sia importante che la sanità pubblica analizzi il fenomeno della migrazione sanitaria: nella contrazione dei numeri a causa del Covid-19, poiché molte persone si rivolgono a strutture più vicine a casa. Ma anche interpretare in fretta i nuovi bisogni di chi si sposta e continua oggi a spostarsi per avere cure», continua la Gangeri. Soprattutto alla luce del fatto che i pazienti si sposteranno anche per un po’, maggiormente da soli che accompagnati dai familiari che ancora vengono tenuti distanti dalle strutture sanitarie come prevenzione del contagio. «Bisogni sociali ma anche economici», conclude la dottoressa Laura Gangeri.


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