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Smart working? In pandemia poco smart e molto più simile al telelavoro

La pratica dello smart working sta avendo un’applicazione massiccia a causa dell’emergenza Coronavirus. A fronte degli indubbi vantaggi di questa pratica, emergono tuttavia diversi interrogativi circa le sue esternalità negative. Ne hanno parlato, in incontro proposto da Fondazione Corriere e Fondazione Pesenti, il filosofo Maurizio Ferraris, Aldo Mazzocco di Generali Real Estate e Paola Profeta dell'Università Bocconi

di Lorenzo Maria Alvaro

La pratica dello smart working sta avendo un’applicazione massiccia a causa dell’emergenza Coronavirus. «A fronte degli indubbi vantaggi di questa pratica, emergono tuttavia diversi interrogativi circa ad esempio le esternalità negative per i numerosi settori che vivono dei consumi dei lavoratori nell’ambito della giornata lavorativa, le possibili penalizzazioni per categorie di aziende o lavoratori, l’impatto su una diversa socialità e gestione del tempo», sottolinea la giornalista Valeria Palumbo, introducento “Quanto è smart il lavoro a distanza?”, l'incontro proposto da Fondazione Corriere e Fondazione Pesenti, che a visto protagonisti il filosofo Maurizio Ferraris, Aldo Mazzocco di Generali Real Estate e Paola Profeta dell'Università Bocconi.

«Per me la pandemia è stata una benedizione. Avevo dei libri da finire e ho potuto farlo», esordisce con ironia Maurizio Ferraris.

«Naturalmente bisogna avere una casa abbastanza grande e buoni rapporti famigliari», continua il filosofo, «Smart è un termine inadeguato. È curioso, a questo riguardo, come in questo periodo nascano tutta una serie di strani aggettivi che lo definiscono. Come agile o frugale».

Per Ferraris «si dice che questo virus sia stato l'acceleratore di un fenomeno che era già in corso. Ma bisogna intendersi su quale fenomeno stava già avvenendo. Penso a tre temi: la domiciliarizzazione del lavoro stava crescendo già prima, il prosumer. Ma quello cui stiamo assistendo è una disseminazione del lavoro. Vien meno la differenza del tempo lavorativo e quello della vita privata. Molte mansione possono essere fatte in qualunque momento. Non è detto che sia sempre positivo. Infine c'è un terzo livello che va messo a fuoco ed è il fatto che a casa si è sempre lavorato dall'avvento dei telefoni cellulari. In casa produciamo dati e quindi valore. Dobbiamo riuscire a vedere il fenomeno in tutta la sua complessità perché abbiamo un cambiamento della nozione di lavoro».

Potrebbe darsi che si faccia avanti un epoca in cui la produzione diventa automatizzata in cui l'unica specificità dell'umano sia il consumo

Maurizio Ferraris

In conclusione per Ferraris «l'uomo faber è stato uno dei momenti della storia umana. Potrebbe darsi che si faccia avanti un epoca in cui la produzione diventa automatizzata in cui l'unica specificità dell'umano sia il consumo. Quindi bisogna capire come riprendere una forma di lavoro diversa da quelle conosciute nel 900 e che stano scomparendo».

Per Paola Profeta, professore associato di Scienza delle Finanze all'Università Bocconi​, «non è facile capire le differenze tra smart working, lavoro agile o telelavoro. Per smart working si intende flessibilità, sia nei luoghi e nei tempi. Quindi il lavoro può essere espletato in tanti ambienti diversi e con orari differenti da quelli d'ufficio».

«Questo non ha molto a che veder con l'esperienza che abbiamo vissuto in lockdown. Era più una forma di telelavoro a cui però è mancata la parte, a carico delle aziende, degli strumenti tecnologici da fornire ai dipendenti. Quello che è successo è dettato dall'emergenza. È stata una forma massiccia di lavoro a distanza non pianificato. Prima del Covid alcune aziende avevano forme di flessibilità, ma molto limitate. Ci siamo ritrovati quindi nella condizione di affrontare questa emergenza senza organizzazione. Se da un lato questo ha permesso di continuare a portare avanti le attività si hanno avute anche molte criticità».

Quella che abbiamo vissuto non è stata un'esperienza di smart working ma più una forma di telelavoro a cui però è mancata la parte, a carico delle aziende, degli strumenti tecnologici da fornire ai dipendenti

Aldo Mazzocco

«Gli effetti economici», continua Profeta, «possiamo vederli sia nell'immediato che sul medio e lungo periodo. Abbiamo come Bocconi fatto diversi studi al riguardo. Sia per quello che riguarda lo smart working vero, pre pandemia, che il telelavoro della pandemia. Nel pre gli effetti positivi su produttività, benessere del lavoratore e bilanciamento di vita erano evidenti. Il nostro studio, di tipo sperimentale, ha seguito dei lavoratori per nove mesi confrontando le differenze tra chi adottava flessibilità e con chi no. Nel post i rischi sono stati un calo della produttività e del commitment. Questi risultati negativi però sono più dovuti all'improvvisazione senza protocolli e prassi che al telelavoro in senso stretto. Sono aumentate le differenze di genere, visto il tema delle scuole chiuse e della gestione famigliare molto difficile. Infine spesso si trasformava in over working soverchiando completamente gli spazi e i tempi dedicati alla vita personale. Non si può, tuttavia, prendere l'esempio del lockdown come forma lavorativa smart cui guardare».

Anche secondo Aldo Mazzocco, amministratore delegato e direttore generale di Generali Real Estate S.p.A. e presidente di Citylife S.p.A. «viviamo una accelerazione di trend che erano già in atto».

«La prima volta in cui ho sentito parlare di smart working fu nella Silicon Valley nel 2005», spiega l'ingegnere, «era una cosa bella, una liberazione dalla scrivania grazie alla connessione continua e al cloud. L'headquarter di Orecle, in questo senso, è significativo perché si vede, nei vari building costruiti nel tempo, il cambiamento architettonico del lavoro. Si passa dall'ufficio di una volta con le foto di famiglia e delle vacanze a tavoli sotto gli alberi con i laptop. Era smart perché era tutto basato sulla contaminazione. Non si stava più in ufficio ma in spazi comuni con la libertà di condividere e fare comunità. A San Francisco infatti notarono un aumento incredibile della creatività. Quello era veramente smart working basato sulla condivisione delle conoscenze».

Quello che vedo e sento oggi non ha nulla di smart. Chiamiamolo remoto, telelavoro o stare a casa. Che è la negazione della contaminazione alla base dello smart working

Aldo Mazzocco

Quello che vede e sente oggi Mazzocco «non ha nulla di smart. Chiamiamolo remoto, telelavoro o stare a casa. Che è la negazione di questa contaminazione. Inoltre il lavoratore perde un terzo della sua capacità relazionali e un altro terzo che riguarda il cittadino perché costruiamo monadi isolate dai colleghi. È l'atomizzazione dei lavoratori che non hanno più forza o voglia di costruire e partecipare. Infine c'è l'essere umano: che fine fa una persona che non si fa più la barba e non trucca più? Il non uscire di casa impatta sui consumi ma principalmente sull'essere umano che ne viene distrutto. Sparisce l'inaspettato, diventiamo dei cottimisti. Questa deriva porta alla sparizione dei cittadini. Muoiono gli entusiasmi e le idee».


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