Welfare & Lavoro

Rabaiotti: Milano riparta portando al centro quello che ha lasciato sotto traccia e posto al margine

L'Assessore alle Politiche sociali e abitative di Milano: “È necessario aprire spazi di prova, occasioni di sperimentazione. Abbiamo bisogno di generare il nuovo. Di portare al centro quello che abbiamo lasciato sotto traccia e posto al margine: i disabili psichici ed intellettivi che si raccontano attraverso l’arte e la musica, la popolazione straniera che partecipa alla cura dello spazio pubblico di una città che non è la loro, i giovani Rom che organizzano una scuola di formazione politica, le famiglie di ragazzi autistici che con le loro figlie e i loro figli consegnano le mascherine alle famiglie delle case popolari

di Redazione

Gabriele Rabaiotti Assessore alle Politiche Sociali e Abitative insegna Analisi della Città e del Territorio come ricercatore del Dipartimento di Architettura e studi Urbani al Politecnico di Milano. È un tipo a cui piace pensare e speriemtare nuove politiche. Ieri in occasione dell'iniziativa FARE MILANO che ha promosso e porta avanti un osservatorio sul welfare sociale e territoriale, l'Assessore è intervenuto con una corposa e interessantissima relazione (in allegato la versione integrale) di cui riportiamo ampi passaggi.

Non andava proprio tutto bene ma sicuramente prima andava meglio. L’Amministrazione comunale, le direzioni delle Politiche Sociali e della Politiche della Casa hanno lavorato in questi anni per garantire la loro risposta, per fornire i loro servizi, per migliorare quanto si stava facendo da tempo e risultare più efficaci. Per tentare qualche percorso nuovo capace di affrontare le domande e i bisogni in un sistema sociale che nelle città, anche a Milano, si muove e si trasforma.

L'attività, che chiamiamo ‘ordinaria’, che riteniamo dovuta e che arriviamo a dare per scontata (e questo è grave) io l’ho vista e l’ho vissuta da dentro. Rappresenta un punto di partenza che non va dimenticato. È segnata da importanti distorsioni, malfunzionamenti, rincorse, diseconomie, rigidità, iper-discipline e fatiche. Un peso che grava in modo preoccupante non solo sulla macchina comunale ma che coinvolge anche le molte organizzazioni coinvolte attraverso gli appalti, le convenzioni, gli accreditamenti.

In questi mesi questo mi è diventato più chiaro; molta della nostra attività e del nostro tempo viene impiegato per trovare il modo per riuscire a fare anche solo una parte di quello che vorremmo e che ci sembrerebbe giusto fare. Lo sforzo non è innanzi tutto orientato all’attuazione ma alla costruzione delle condizioni per poterla immaginare l’attuazione. È il nodo burocratico che, anno dopo anno, stringe il suo morso anziché allentarsi. Come possiamo rispondere alle emergenze, alle emergenze sociali riparandole dal rischio di scivolamento verso la povertà, verso l’esclusione o attivando percorsi di risalita e di inserimento sociale?

Dobbiamo riconquistare la possibilità di una azione pubblica degna di questo nome, che possa tornare ad esprimere la sua forza, la sua efficacia e a riaffermare la sua necessità. Certo servono forme e modelli nuovi, nuove regole del gioco forse, anche, l’abilitazione di nuovi attori. Proseguire sul sentiero tortuoso e già tracciato senza questa consapevolezza significa portare l’azione pubblica al fallimento, esporla all’accusa avendola resa impotente. Una responsabilità grave se siamo convinti che solo l’azione del pubblico è la garanzia alla tutela dei più deboli e all’accesso universale ai diritti.

Già prima, ma specialmente ora, è chiaro che anche a Milano siamo di fronte ad un processo di impoverimento che in una società di differenze colpisce diversamente il corpo lasciando le ferite più profonde sulla parte più fragile e quindi aumentando le distanze e le diseguaglianze già presenti. Vista da questa prospettiva, pur parziale, l’azione di welfare non può essere indifferenziata, uguale per tutti, ma ha bisogno di contrastare queste diversità risultando opportunamente sbilanciata, squilibrata, secondo quello che viene indicato come un percorso di ‘discriminazione positiva’ che consegna di più a chi ha di meno.

Sempre dentro questa prospettiva sembrano trovare meno spazio le questioni legate ai diritti, al loro riconoscimento, alla loro accessibilità universale. Questioni che hanno animato e ancora muovono battaglie importanti e che hanno dato risultanti altrettanto rilevanti, in particolare in questa città. I temi legati al riconoscimento e al rispetto sociale e civile delle diversità intercettano altri piani, non necessariamente sovrapponibili alla questione della povertà. Senza nulla togliere al grande tema dei ‘diritti’, ritengo che sia quest’ultima, e cioè la povertà, la questione ora più urgente.

VIVERE I QUARTIERI

I quartieri popolati ed in particolare quelli popolari realizzati a ridosso ed oltre la circonvallazione della 90/91 sono le aree più dense di abitanti. In questa densità, spesso, sono raccolte molte potenziali risorse ma anche e sicuramente molte reali criticità, debolezze, assenze. Accade nei nostri quartieri e in quelli di Aler.

Il filtro che utilizziamo per l’assegnazione delle case popolari, come vuole il regolamento regionale, produce una concentrazione delle povertà socio-economiche all’interno di questi quartieri che rappresentano il 10% della città costruita. Anziani e grandi anziani, famiglie numerose, famiglie senza reddito, nuclei con presenza di persone disabili o invalide, … Risolto, quando si riesce, il tema della casa abbiamo risposto al bisogno? Alle debolezze della famiglia e delle persone non corrisponde, oggi in particolare, una debolezza ed una fragilità del contesto? Non ci sarebbe bisogno di altro, di qualche cosa in più?

L’impressione è che in questi luoghi non si dia e non ci sia la possibilità di uno spazio di azione e di crescita sufficientemente ricco ed articolato, che la parte di città che nei decenni si è costruita intorno sia una infrastruttura ancora debole, mancante, incompleta, sfibrata, separata. In queste realtà, che fatichiamo a prendere e capire, tre cose sembrano assumere rilevanza:

Serve una concentrazione locale, territoriale, ‘spaziale’ delle risorse, delle capacità, delle competenze e degli sforzi che ciascuno di noi è in grado di mobilitare e già, almeno in parte, impiega. Un ‘progetto per gli abitanti’ che ci metta insieme, che ci faccia sentire meno soli nell’azione. Questo chiede all’amministrazione di superare un approccio settoriale e di assumere un orientamento locale integrato ma chiede anche alle organizzazioni sociali, a partire da quelle che intervengono in questi luoghi, di sollecitare l’Amministrazione con la richiesta e la proposta di una strategia di welfare territoriale, di un piano di lavoro comune e multidirezionale che intercetti e si misuri con questi contesti, con questi quartieri. Un patto che ci porti ad essere tutti, diversamente, abitanti. Almeno in alcuni quartieri, in via dimostrativa.

Per costruire un sistema di welfare territoriale e di prossimità materiali e potenzialità non mancano; serve rafforzare una consapevolezza politica, una linea progettuale forte (nel pubblico e nelle organizzazioni locali) che assuma questi quartieri come bersaglio della nostra azione e attenzione;

– dobbiamo prestare attenzione alle dinamiche di scambio tra questi quartieri, popolati e popolari, ed il resto della città. Una delle questioni decisive è connessa al fatto che abitano questi quartieri solo coloro che vi risiedono. Il resto della città non ha mai modo di entrare in questi mondi che restano isolati, distanti, separati, abbandonati, in questo senso ancora periferici. Dobbiamo creare e costruire le ragioni che spingano e costringano la città ad entrare in questi quartieri, a turbare il loro equilibrio, la loro ‘quiete’, la loro impermeabilità. Questo movimento va immaginato e praticato.

– anche se Milano può vantare una percentuale di case popolari doppia rispetto a quella delle altre grandi città italiane (dieci contro cinque) è evidente che rimane un bisogno di casa. In parte dovremmo lavorare per aumentare la mobilità interna al patrimonio pubblico favorendo l’uscita di chi non ha più i requisiti di reddito previsti dalla legge a trovare una diversa soluzione. Per questo dovremmo lavorare alla definizione di regole orientate ad aumentare le quota di affitto accessibile all’interno dei progetti di sviluppo immobiliare. Così Milano sta costruendo e rafforzando il vero pezzo mancante in quello che possiamo indicare come un sistema ancora riduttivo e polarizzato (da un lato l’affitto pubblico a canoni bassi e bassissimi, bloccato e dall’altro la proprietà privata, a prezzi crescenti e fuori misura)

LAVORARE NELLA CITTA’

Accanto ai territori fragili, alle geografie della povertà con cui si confronta il primo nodo, il secondo tema è quello del lavoro, in particolare della componente ‘sommersa’ (lavoro nero) e della componente mancante (non occupazione e disoccupazione). Non è una materia facile da prendere e governare e non è facile specialmente se pensiamo di farlo a livello comunale ma gli effetti di questa crisi, di questa ferita che il lockdown ha riaperto, si trasferiscono quasi automaticamente sulla politica sociale locale. Troppo in fretta, in mancanza d’altro.

Questo spostamento dal lavoro (mancante) all’intervento sociale (riparativo) porta popolazione attiva, fino a ieri capace di arrangiarsi e di cavarsela, verso il sistema passivo dell’assistenza. Alla perdita del lavoro rispondiamo con un contributo; mettiamo in campo un meccanismo tradizionale che ha alimentato un sistema oramai sovraccarico e che tende a trasformarsi in un diritto per il singolo e in un dovere per l’Istituzione pubblica. Siamo più bravi ad erogare contributi che non a promuovere percorsi per la creazione di posti di lavoro ma è ora evidente che questa predisposizione del meccanismo tradizionale del welfare pubblico sta consumando lo stesso sistema.

La nave del welfare (tradizionale) tende a far salire tutti a bordo e rende complicata, per non dire impossibile, la discesa dei passeggeri. Sappiamo che per alcuni è bene ed è necessario restare a bordo ma questo non può valere per tutti, a prescindere. Se continua a crescere la parte di popolazione assistita ed inattiva, se spostiamo su questo binario anche coloro che fino a ieri erano al lavoro il sistema, già in crisi di suo, si prepara al prossimo collasso.

È possibile disegnare una diversa traiettoria, ha senso immaginare un dispositivo che parta dalla città di Milano che, rispetto ad altre, è una città vitale e dinamica, proprio a partire da una diversa consapevolezza e preoccupazione rispetto a quanto sta accadendo? Intendiamo e riusciamo a muovere almeno una parte dei protagonisti della ‘vita activa’ (e ‘lavor-activa’) e quindi le imprese e le organizzazioni economiche che fanno e danno lavoro per aumentare lo spazio del lavoro possibile? Abbiamo bisogno di capire dalle imprese presenti in città se questa prospettiva di allargamento, se questa estensione del perimetro di ‘attivazione sociale’ sia possibile e a quali condizioni.

GOVERNARE E FARE WELFARE

Il terzo nodo chiude la riflessione sui bisogni di Milano, sulle aree critiche, sulle povertà, tornando a quanto abbiamo introdotto in premessa. Ci stiamo misurando anche con la debolezza e la ‘povertà’ della risposta pubblica, specialmente se intesa come risposta del pubblico. Dopo quasi cinque anni di assessorato mi chiedo come mai tanto lavoro e tanta fatica producano così pochi risultati. Animati dalla convinzione che l’intervento pubblico serve e serve nella sostanza per garantire l’universalità delle risposte e l’attenzione a ciò che il mercato e la società tendono a non (voler) vedere dobbiamo chiederci che cosa non sta funzionando e perché.

Le ragioni possono essere molte ma è innegabile che ci sia un problema nel sistema deputato a fornire le risposte. Ho come l’impressione che ci stiamo fregando da soli, con le nostre mani; che in questi decenni, in modo progressivo, siamo diventati prigionieri, bloccati dentro le regole e le procedure che dovevano liberarci e aiutarci. La povertà e la crisi della risposta del pubblico hanno bisogno, per essere contrastate, anche delle sollecitazioni della città, delle voci della società che la abita, pur scomposta e frammentata. Solo in quella sfera si può inventare ed innovare.

La povertà e la crisi della risposta del pubblico hanno bisogno, per essere contrastate, anche delle sollecitazioni della città, delle voci della società che la abita, pur scomposta e frammentata. Solo in quella sfera si può inventare ed innovare.

Abbiamo bisogno di voci nuove, di nuove forme di rappresentazione delle voci note e non ancora note. In questi mesi difficili ho capito che non possiamo ascoltare solo chi parla ma dobbiamo chiedere anche a chi tace. Sento che non è più il tempo della rivendicazione e della contestazione che mirano ad ottenere l’inserimento nelle agende pubbliche di specifiche questioni. Quelle battaglie non toccano la natura del problema politico ed amministrativo di oggi, riscontrabile anche a livello locale. E’ debole ed in parte inefficace il sistema istituzionale di risposta a cui ci rivolgiamo, il sistema a cui chiediamo di prestare attenzione ad altre istanze, ad altri bisogni. Non è più un problema di richiamo dell’attenzione dei decisori, di impermeabilità della macchina rispetto a certi problemi, di esclusione intenzionale di bisogni e categorie, di presunzione tecnocratica. Quel sistema si è incastrato e fa fatica a reagire.

A lungo andare abbiamo stabilizzato, istituzionalizzato, le modalità di risposta e di relazione tra i cittadini, i corpi intermedi, gli enti pubblici. Abbiamo ‘normalizzato’ quello che inizialmente risultava spiazzante, eccentrico, nuovo. Nel tempo tutto questo è stato ricondotto al linguaggio istituzionale e al modello di ‘trattamento amministrativo’. È un processo inevitabile e forse è persino giusto ma dopo tanti anni credo sia arrivato il tempo di ripensare attraverso quali forme dare forza e voce alle domande sociali, a quelle che persistono e a quelle che sono emerse più di recente.

Negli ultimi cinquant’anni più volte abbiamo chiesto alla politica di cambiare, rivedere, modificare, invertire. Oggi le condizioni del contesto sociale ed economico sono profondamente cambiate mentre persistono le inerzie politiche e istituzionali. Nella città ferita una parte significativa di Milano si è mossa ed ha reagito; ha proposto e ha fatto. Dobbiamo essere capaci di intercettare il cambiamento in atto dando dignità politica alle azioni sociali e agli interventi organizzati dal basso che, sicuramente già presenti sotto traccia, sono emersi con particolare forza in questi mesi. Non solo necessario ma anche possibile un aggiornamento del sistema.

Il modo in cui ci siamo abituati a trattare le situazioni e a dare risposte sembra non funzionare più o non funzionare bene come una volta. Senza una nuova domanda o un modo nuovo di fare le domande è difficile riuscire a dare nuove risposte, a elaborare nuovi modi di dare risposte. Se lasciamo le cose come stanno finiremo per triturare nel meccanismo noto da dentro e sempre più inspiegabile da fuori quello che di diverso sta accadendo e che ora sembra aver trovato una qualche visibilità.

E’ necessario aprire spazi di prova (senza troppo temere l’errore), occasioni di sperimentazione e di dimostrazione di nuove possibilità. Abbiamo bisogno di generare il nuovo. Di portare al centro quello che abbiamo lasciato sotto traccia e posto al margine: i disabili psichici ed intellettivi che si raccontano attraverso l’arte e la musica, la popolazione straniera che partecipa alla cura dello spazio pubblico di una città che non è la loro, i giovani Rom che organizzano una scuola di formazione politica, la raccolta del Pride che viene donata al Fondo di Mutuo Soccorso per tutta la comunità, le famiglie di ragazzi autistici che con le loro figlie e i loro figli consegnano le mascherine alle famiglie delle case popolari. Nuovi protagonisti, nuove azioni e nuovi orizzonti per la politica e per la nostra città. Questo serve sempre, ora di più!


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