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Pasolini, Davies e il naufragio post-Covid di politica e scienza

«Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi» affermava Pier Paolo Pasolini nella sua ultima intervista. Una profezia amara e lucida da leggere con le lenti del presente

di Carmine Castoro

La follia di un governo che non implementa i reparti di terapia intensiva, non assume nuovi infermieri, dottori, anestesisti, tracciatori, non compra nuovi vettori per il trasporto pubblico e nuove carrozze per treni e metro già esistenti, che fallisce clamorosamente nel calcolo previsionale di una seconda ondata del Coronavirus, e che non vede altra soluzione per la tanto sbandierata “salute pubblica” che nuove restrizioni per un commercio già piagato, nuove amputazioni della libertà individuale, nuove preclusioni degli spazi sociali, nuove sacche di sofferenza reddituale e occupazionale.

I protocolli vuoti dell'emergenza

La follia di una presidenza del Consiglio che continua ad abusare di uno strumento meramente amministrativo e applicativo come i dpcm per incidere chirurgicamente (ma non in maniera indolore) nella carne viva della quotidianità, dei diritti di cittadinanza, della dignità e dell’autodeterminazione, singola e collettiva.

La follia di una casta mediatica che dovrebbe, in tutti i titoli dei quotidiani e di apertura dei tg, utilizzare come un mantra ossessivo, una clava o un grimaldello, l’attacco all’establishment per la sua irresolutezza, incompetenza e impostura, preferendo invece la grafica fobogena di curve e statistiche, tremendismi in corsia e testimonianze all’ultimo respiro, bollettini di guerra e funambolici unidirezionali accumuli di dati e numeri ai limiti dell’insignificanza.

Ecco, la follia, la psicosi sociale, la riduzione delle complessità, astorica e acefala, come stigma di questa contemporaneità batterio-esposta che sta portando sofferenze indicibili ma anche un mix esplosivo di ignoranza e infamie ai piani alti dei palazzi che contano.

“Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi”, diceva Pier Paolo Pasolini nella sua Ultima Intervista rilasciata a Furio Colombo (Aliberti, pagg. 71, euro 8,90).

Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi

Pier Paolo Pasolini

Il vuoto del potere

E non a caso il grande saggista e cineasta bolognese utilizzava in quella breve ultima profezia (è il pomeriggio dell’1 novembre del 1975: in quella stessa notte sarebbe stato ucciso e trovato massacrato all’Idroscalo di Ostia) metafore come “inferno”, “cancro”, la “maledetta vasca” per dare l’idea di un potere che non era già più basato sulle classiche figure della invettiva popolare, della presa di coscienza e del crimine contro l’umanità, delle fronde e delle insurrezioni anti-padronali – “il fascista di Salò, il nazista delle SS” -, bensì si annunciava liquido, disperante, tumorale, e sinuoso, annegante, annichilente, erosivo. Un potere che manda quasi in sciagura la ricerca del colpevole e la ricostruzione dei meccanismi di causa-effetto e che fa urlare: “Siamo tutti in pericolo”. Con in testa alle milizie dei reggitori il prototipo dell’insospettabile, dell’affidabile: “ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e “collabora” (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto”.

Capziosi, persuasivi, eleganti i nuovi signorotti, “con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce”. Uomini in doppio petto, che si battono per il Bene di tutti, speculando sulle ansie e sui bisogni, straparlando di informazione pulita e obiettiva, raccomandando e indottrinando con sorrisi merlettati e toni paternalistici, un occhio agli indici di popolarità, un occhio al vicino francese o tedesco e tripla benda che li acceca al cospetto di sguardi deformati dalla miseria e dalla solitudine. Uomini con la pochette, potremmo attualizzare, e col bell’orologio fermo all’ora del destino che stabiliscono loro.

Ecco allora stagliarsi un “sistema di educazione”, dice Pasolini in epoca pre-social – non la tradizionale e sanguinaria repressione – che prende lentamente possesso dei nostri convincimenti più profondi e li vira verso la perversa trigonometria “avere, possedere distruggere”, impastata di tv, discorsi pubblici, di Progresso e imitazione, di pretese santificate e di una deontologia della vita pratica che si tramanda sotto il Capitale perché così fan tutti da decenni: “Sono assassino e sono buono”.

Mai come in questa fase di “pandemia” la Politica, la Scienza, la Comunicazione hanno perso il loro patrimonio classico di rigore euristico, tavole valoriali, concordia sociale e processi evolutivi co-gestiti.

Ne è convinto il sociologo inglese William Davies che in Stati nervosi (Einaudi, pagg. 362, euro 18,50) ci illustra proprio il passaggio da un’epoca di massima deferenza verso chi, cartesianamente, lascia da parte faziosità e ideologie, desideri e interessi privati, e pianifica la conoscenza in nome della pace e della massima limpidezza dei concetti, a una, la nostra, dove invece è l’emozione a farla da padrona, a scalzare gli ottimati del sapere, e a trascinarci lungo una china dove la politica è “poco più che un sistema di coordinamento di massa tramite un sentimento condiviso”, dove vigono segreto, inganno, velocità, flessibilità e reattività, dove verità è “qualsiasi cosa che non sia stata ancora eliminata da qualcos’altro” e “la ricerca di ricchezza, potere e verità comincia un po' alla volta a diventare una cosa sola”

Flussi senza fine

Sperimentazione contro fluttuazione. Definizione matematica di campi contro elasticità di bande di oscillazione. Lotta al segreto contro piramidi di menzogne. E’ vero che le questioni di vita e di morte, di assistenza e di senilità, di terapia e di comfort tornano ad essere preponderanti nella dieta esistenziale di ogni cittadino – Covid docet inflessibilmente – ma, buttata via dalla porta principale, risale dalla finestra una nuova “scienza”, non più finalizzata alla spasmodica ricerca di un modello unico su cui convergere “che sia in grado sia di descrivere cosa è successo sia di prevedere con un margine di errore determinato cosa succederà in futuro” (Enrico Bucci, biologo, professore alla Temple University di Filadelfia sul Foglio del 26 ottobre scorso) ma legata al controllo, a parametri cangianti e iperbolici, al packaging post-umano, alla masterizzazione del reale, col cecchinaggio millimetrico di quelli che mi piace battezzare sniper emocratici,che passano in rassegna ogni piega della nostra vita per colonizzarla e incolonnarla in base a soglie di emozionabilità del sentire pubblico.

Fioriscono sempre nuovi parametri, si infittiscono le scuole di pensiero, le correnti, i pollai autoreferenziali (il diuturno penoso show dei virologi superstar), le gabbie teoriche, nonché i canali di comunicazioni e le realtà parallele del virtuale, gli stimoli eterodiretti in quella che Marc Augé nel suo ultimo pamphlet Piccole felicità. Malgrado tutto…(Castelvecchi, pagg. 43, euro 6) definisce una bonheur “prefabbricata” e una perdita dell’io e del noi: turismo, gadget, cura del corpo, tecnologie, contatti solo on line e tutto a una velocità impazzita, da Frullatore Planetario che fa da sbocco alla “surmodernità”: perennemente sciolti e sbatacchiati in un “altrove”.

Come nella pletora dei protocolli e degli schemi in cui affoga una emergenza sanitaria. E se invece la soluzione fosse sottrarre, attendere, abitare le soglie – riflette l’etnologo francese – riprendere tempo, muoversi sì, ma non sulle traiettorie del consumo e dell’ansia, ma nelle promesse di relazione, ri-andare all’”uomo generico” e alle sue invarianti simboliche, al paesaggio che lo circonda? Ritroveremmo la lentezza delle passeggiate di Rousseau, la calma, la riflessione, quantomeno, e un briciolo di sana vita all’aria aperta che non nuocerebbe ai nostri polmoni affaticati da nemici invisibili…


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