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La scuola “uguale a prima”? Oggi significa peggio di prima

Trasgredire, connettere, trasformare: sono i tre verbi urgenti per la scuola di oggi. Meno lezioni sincrone, classi ibride in presenza e a distanza, più input per attivare i ragazzi. Altro che discutere di aprire o chiudere le scuole, qui si tratta di avere il coraggio di fare diverso da prima, senza paura. Per Dario Ianes «il momento chiede a tutti di spendersi personalmente, di provare a connettersi e a fare cose insieme, di recuperare un’energia collettiva per avviare il cambiamento»

di Sara De Carli

«Il primo passo non ti porta dove vuoi… ti toglie da dove sei»: è questa citazione di Alejandro Jodorowsky a dare la cornice di senso del momento in cui siamo. Forse non sappiamo dove andare, né che strada prendere esattamente ma di certo il punto in cui siamo non è un punto in cui ostinarsi a voler restare. Per Dario Ianes, docente di pedagogia e didattica dell’inclusione e co-fondatore di Erickson, si tratta oggi di «non aver paura, essere disposti a uscire da quella paura che porta a trattenerci, a pensare di fare da soli, all’avarizia in un certo senso. Il momento al contrario chiede a tutti di spendersi personalmente, di provare a connettersi e a fare cose insieme, di recuperare un’energia collettiva per avviare il cambiamento. Non aver paura di fare un primo passo in avanti, anche se questo vuol dire sbilanciarsi e perdere l’equilibrio almeno per un attimo».

Ianes si rivolge in particolare al mondo della scuola e agli insegnanti, alla vigilia del 3° Convegno Internazionale organizzato da Erickson il 13 e 14 novembre (in streaming), in collaborazione con Rizzoli Education, Oxford University Press e Fondazione Mondo Digitale. 1.250 i docenti iscritti, titolo “Didattiche.2020 – Trasgredire, Connettere, Trasformare”, con una efficacissima locandina che smonta delle (inanimate) mollette per stendere i panni e le trasforma, riconnettendole diversamente, in (vivi) camaleonti.

Professore, il punto è sempre questo. A maggio lei invitava, rotto il vaso, a non cercare di riaggiustarlo ma a provare a fare qualcosa di nuovo, unendo quei cocci in maniera differente. La scuola invece forse ha cercato soprattutto di tornare a “quella di prima”. Lo scriveva anche pochi giorni fa anche Giuseppe Bertagna: «Il rischio è che il personale della scuola si sottoponga ad uno sforzo enorme per poter continuare a fare ciò che ha sempre fatto, senza comprendere che è giunto il momento di raccogliere la sfida di paradigmi culturali, organizzativi ed educativi finora respinti. I soldi del Recovery fund sono a debito. Il rapporto debito Pil schizzerà al 250-280%. Se ci caricheremo di questo peso soltanto per manutenere la scuola esistente, povere generazioni future».
Esatto, è il rischio di fare le stesse cose di prima ma facendole peggio di prima, perché se la lezione à la Recalcati in presenza può ammaliare se fatta da un bravo docente, nello schermo di un tablet perde quasi tutto. La seconda ondata è più problematica della prima perché non ha attivato quell’adrenalina per cui tutti volevamo combattere uniti, cambiare… L’estate ha apparentemente lenito tutte le ferite, quando sarebbe stato necessario subito pensare a una ridefinizione della scuola che non fosse solo misurare le distanze fra i banchi. Una delle speranze (o illusioni) che abbiamo avuto dopo il primo lockdown e fino all’inizio dell’estate è che si fosse capito che l’apprendimento può avvenire in tanti luoghi, non solo a scuola e col libro di testo: si è fantasticato di scuola diffusa, di patti con il territorio… Poi si è congelato tutto ed è passato l’entusiasmo per il cambiamento, perché si è fatta strada l’idea che tutto fosse passato. Anche il Governo con il “si torna a scuola” ha espresso un po’ questa ostinata speranza di conservare quello che c’era già, con il mito della scuola in presenza, che alla fine è durata un mese e mezzo… Oggi la realtà ci dice di una scuola che fa una grandissima fatica a spostarsi dal sincrono, che non per nulla è la modalità più simile al “come prima”. Col primo lockdown – ripeto – si era rotta l’unitarietà della scuola intesa come tutti fanno la stessa cosa, nello stesso momento, usando lo stesso materiale, con lo stesso docente… ci eravamo illusi che quell’andare in pezzi dell’unitarietà, seppur per causa di forza maggiore, fosse l’occasione per innovare e cambiare. Invece è tornata fuori con l’insistenza quasi assoluta sulla lezione sincrona. Pragmaticamente, oggi, questo è uno dei punti cruciali: spostarsi dall’idea del sincrono.

Una delle speranze (o illusioni) che abbiamo avuto dopo il primo lockdown e fino all’inizio dell’estate è che si fosse capito che l’apprendimento può avvenire in tanti luoghi, non solo a scuola e col libro di testo: si è fantasticato di scuola diffusa, di patti con il territorio… Poi si è congelato tutto ed è passato l’entusiasmo per il cambiamento, perché si è fatta strada l’idea che tutto fosse passato. Anche il Governo con il “si torna a scuola” ha espresso un po’ questa ostinata speranza di conservare quello che c’era già, con il mito della scuola in presenza, che alla fine è durata un mese e mezzo… Oggi la realtà ci dice di una scuola che fa una grandissima fatica a spostarsi dal sincrono, che non per nulla è la modalità più simile al “come prima”. Pragmaticamente, oggi, questo è uno dei punti cruciali: spostarsi dall’idea del sincrono.

Dario Ianes

Si dice che sono i genitori a chiedere il sincrono: come se le ore di sincrono fossero sicuramente scuola e altre modalità didattiche lo fossero meno. Ma siccome la prima modalità è più comprensibile… placa l’ansia.
In questa situazione i ragazzi hanno bisogno di essere attivati, in modo che costruiscano qualcosa. Nella lezione frontale e nel sincrono è più difficile riuscirci. Se invece ai ragazzi dai input potenti, materiali buoni, consegne di compiti da costruire in cordate significative di compagni che lavorano insieme… loro producono cose molto interessanti. Questo è un mix proficuo fra sincrono e asincrono. Certo che poi devi dare tempo e spazio perché gli studenti possono spiegare e mostrare ciò che hanno fatto, per fare una peer review fra loro, per rendere visibile l’apprendimento. Anche per il docente l’asincrono è più impegnativo, perché devi cercare il materiale, rielaborarlo, dare feedback. Quando gli studenti producono, producono anche lavoro per l’insegnante! L’asincrono che li fa lavorare in autonomia il più possibile carica di responsabilità non solo i ragazzi ma anche i docenti.

In questi giorni si è parlato tantissimo della possibilità di continuare a frequentare in presenza per alunni con certificazioni, DSA, BES. Quella che sembrava un’attenzione positiva per gli alunni che oggettivamente risultano maggiormente penalizzati dalla DAD si è ribaltata in una sorta di accusa di esclusione degli stessi alunni, con piccoli gruppi in presenza che sembrano riportare alle classi speciali precedenti al 1977, cancellando con la scusa delle “buone intenzioni” quarant’anni di percorsi di inclusione. È così?
È un tema molto importante, anche se l’accusa di riprodurre le scuole speciali la vedo un po’ esagerata, seppur mossa da persone che stimo e di cui comprendo i timori. Ovviamente il piccolo gruppo che fa scuola in presenza deve essere eterogeneo e su questo bisogna che i dirigenti facciano la loro parte: a scuola in presenza loro possono chiamare tutti gli alunni che hanno qualche condizione di fragilità. Non solo alunni con una certificazione di disabilità quindi, ma anche DSA e BES, quelli che sarebbero penalizzati dal digital divide, i figli dei medici e degli infermieri, degli insegnanti stessi, di tutti quei lavoratori che tengono aperti i servizi essenziali… sono tantissimi. Un gruppetto eterogeneo in presenza quindi può essere composto senza alcuna difficoltà. A quel punto si lavora con l’insegnante curricolare e con quello di sostegno che sono insieme in presenza – questa è la condizione, ovvio – e gestiscono 6-7 alunni presenti e gli altri collegati online: non dico che sia semplice, ma se riesco a fare una evoluzione della mia didattica, con attività un po’ più evolute di tipo asincrono per sviluppare progetti e competenze senza tenere i ragazzi appiccicati allo schermo, magari con un ragazzo delle famose cordate in presenza e gli altri due connessi da casa… le condizioni di lavoro ci sono e senza alcun rischio di esclusione. Certo, ho sentito di scuole vuote, abitate solo da cinque insegnanti di sostegno e cinque ragazzi disabili: ma una cosa del genere un dirigente non dovrebbe neanche concepirla.

Un gruppetto eterogeneo in presenza può essere composto senza alcuna difficoltà. A quel punto si lavora con l’insegnante curricolare e con quello di sostegno che sono insieme in presenza – questa è la condizione – e gestiscono 6-7 alunni presenti e gli altri collegati online. Le condizioni di lavoro ci sono e senza alcun rischio di esclusione. Certo, ho sentito di scuole vuote, abitate solo da cinque insegnanti di sostegno e cinque ragazzi disabili: ma una cosa del genere un dirigente non dovrebbe neanche concepirla.

Dario Ianes

Quindi anche l’altro tabù, quello di avere un gruppo in presenza e uno a distanza, non è poi tale? Didatticamente parlando è un pasticcio ingestibile o si può fare?
Si può e si dovrebbe fare. Chiaro che è più complesso gestire questa situazione ibrida, anche perché il docente in questo modo è obbligato a essere presente a scuola.

Quindi insomma, più che stare a discutere sul tenere aperte o chiuse le scuole c’è da discutere su una maggiore e diversa integrazione del digitale nella didattica. O la finestra di opportunità per il cambiamento si è già chiusa?
Il verbo “trasformare” che abbiamo voluto fin nel titolo del convegno indica proprio la necessità di continuare a spingere su questo discorso di cambiare la didattica e portarsi dall’insegnamento verso l’apprendimento. È una cosa che si dice da anni, al di là del virus. Se il baricentro è l’apprendimento dello studente, non l’insegnamento, cambia tutto. La scuola nel suo complesso ha perso una grande occasione ma è anche vero che la situazione è diversa rispetto a febbraio, ci sono state molte scuole che hanno fatto formazione sul digitale, molti più insegnanti oggi sono più formati.

Un altro verbo che avete messo in evidenza è “trasgredire”. Dite che gli «insegnanti innovatori non esitano a trasgredire norme ingiuste fronteggiandone con coraggio le conseguenze, nello spirito della disobbedienza civile».
Non vuol dire commettere illeciti e illegalità ma ribellarsi a quelle regole spesso non scritte che bloccano la scuola come istituzione perché “abbiamo sempre fatto così” o perché dentro ogni scuola ci sono lobby di potere interne, ad esempio quegli insegnanti in funzione dei quali si fa tutto l’orario.

Photo by Pierre Bamin on Unsplash


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