Welfare & Lavoro

Carceri italiane, tra la crescita di contagi e l’umanità dei volontari che resta fuori

L’aumento dei casi da coronavirus negli istituti di pena del Paese, in particolare in Lombardia, riporta ancora una volta l’attenzione sul sovraffollamento delle carceri. Dove i contagi si stanno diffondendo in maniera preoccupante. Mentre i volontari restano fuori come i familiari dei detenuti

di Luca Cereda

Non è difficile immaginare perché una pandemia sia una circostanza particolarmente allarmante per gli istituti penitenziari italiani. Il problema di sovraffollamento delle carceri, per cui l’Italia è stata condannata già nel 2013 dalla Corte europea per i diritti umani, le rende dei posti fertili per il diffondersi di un virus. Con celle di pochi metri quadri che ospitano 3, 4 o 5 detenuti ciascuna, con un unico bagno, il distanziamento fisico tanto proclamato come indispensabile per chi è libero non è una possibilità.

«Le istituzioni, per limitare i danni della pandemia dentro le carceri hanno scelto di eliminare i contatti con l’esterno, soprattutto dei famigliari e dei volontari», testimonia Ornella Favero, fondatrice e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti e guida della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (CNVG).

Famigliari e volontari fuori dalla carceri: scelta “emergenziale” o scelta?

«A maggio, dopo il lockdown di questa primavera – continua Favero -, abbiamo dovuto portare avanti una battaglia con i garanti regionali e locali per riuscire a rientrare come volontari, almeno in minima parte, nelle carceri». Sospendere all’infinito le attività dei volontari e delle associazioni aveva resto il carcere un deserto. Così come la vita dei detenuti.

Lasciare fuori i familiari, oltre che i volontari, era una scelta che doveva essere solo “emergenziale”, «ma poi i direttori sono andati avanti con questa politica di comodo. Anche perché escludere volontari e parenti, ma far entrare 37mila agenti, il personale amministrativo e gli educatori che risultato ha avuto? Nessuno. Infatti i contagi, proprio come all’esterno, sono ripresi anche dentro le carceri», chiosa la guida del CNVG.


Nelle carceri il virus “corre” più veloce che fuori

Nel frattempo nelle ultime due settimane il contagio da Covid-19 nelle carceri ha visto una crescita «di circa il 600%». A denunciarlo è proprio il sindacato della polizia penitenziaria Osapp in una lettera al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. «C’è una totale assenza di dispositivi di protezione individuale per i ristretti», scrive il sindacato.

Lo scoppio della seconda ondata di Covid-19 ha portato – al momento – ad oltre 500 contagi fra i detenuti e ancora di più tra il personale penitenziario. La Lombardia “guida” i contagi anche negli istituti di pena: «Ci sono infatti circa 250 detenuti, stando agli ultimi dati comunicati dalle direzioni delle carceri, positivi», spiega Guido Chiaretti, membro del direttivo della CNVG e presidente di Sesta Opera San Fedele.

Il problema della mancanza di spazi è particolarmente grave nel momento in cui le carceri devono provvedere a isolare i detenuti positivi al virus o quelli che presentavano sintomi. Questo ha costretto in diversi casi a trasferire parte dei detenuti in altri istituti, con il rischio – che nei mesi scorsi si è concretizzato – di portare il contagio altrove. «In Lombardia San Vittore a Milano è diventato il centro-covid, ma nel penitenziario gli spazi erano molto limitati già prima della pandemia. Li ci sono i contagiati più gravi, per quelli più leggeri è stato interamente sgombrato il quarto reparto del carcere di Bollate», aggiunge Chiaretti.

Quando e dove i volontari sono rientrati in carcere

Con i contagi che imperversano, i familiari dei detenuti e le associazioni di volontariato sono rimasti nuovamente fuori dal perimetro del carcere. Quando e dove, raramente, vi sono rientrati. «Come CNVG chiedevamo di essere coinvolti nei processi decisionali per quanto riguardava i volontari. Questo non è avvenuto, perché il volontariato piace molto e solo, – aggiunge sconsolata Favero – quando fa i colloqui per il sostengo psicologico o porta i vestiti ai detenuti. Quando invece è portatore di una visione differente e critica sul modo di scontare la pena, anche in pandemia, è meno benvoluto», ammette Ornella Favero.

Quando e dove i volontari sono rientrati in carcere, «abbiamo rispettato le regole, ma c’è stata, tra fine estate e settembre, una grave sottovalutazione della pandemia che ora torna a estromettere quel briciolo di contatto umano che, nei limiti delle disposizioni, avevamo a fatica ripristinato», continua la guida della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia.

Sesta Opera è una di quelle associazione che portava in carcere vestiti di seconda mano per i detenuti: «Con i volontari costretti a casa dalla pandemia, i donatori che non si prendono, giustamente, il rischio di uscire per portare la biancheria o altro materiale ai nostri magazzini e le carceri chiuse all’esterno per tutto, anche per questo tipo di attività vitale per l’igiene personale e la dignità dei detenuti, è rimasta fuori dal carcere. Siamo spettatori immobili», ammette impotente Chiaretti.

Decreto ristori: cosa cambia nelle carceri

Per cercare di contenere i contagi da coronavirus nelle carceri il Governo ha previsto alcuni provvedimenti nel Decreto ristori: l’articolo 28 del nuovo decreto dice che alle persone condannate ammesse al regime di semilibertà possano essere concesse licenze premio straordinarie anche di durata superiore a quella prevista dalla legge, cioè 45 giorni complessivi per ogni anno di detenzione. Questo fino al 31 dicembre 2020 e «salvo che il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura». La “straordinarietà” riguarda dunque solamente la lunghezza delle licenze, non aumenta il numero delle persone che ne potranno beneficiare.

L’articolo 30 si occupa invece del punto più delicato e importante: la detenzione domiciliare. L’articolo dice che fino al 31 dicembre 2020 chi ne farà richiesta e ha meno di 18 mesi di pena residua, anche se si tratta di un periodo residuo rispetto a una pena maggiore, potrà scontare tale periodo a casa «o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza». Alle persone detenute ai domiciliari sarà imposto il cosiddetto braccialetto elettronico, con l’eccezione dei minorenni o di chi ha una pena residua da scontare non superiore ai sei mesi. I domiciliari saranno concessi a meno che il magistrato di sorveglianza, che si occupa di esecuzione e modalità della pena, non «ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura».


La tecnologia in carcere per i colloqui «scongiurerà nuove rivolte»

Una questione su cui il Decreto ristori, e nemmeno quello bis, intervengono è quella delle visite dei parenti ai detenuti. «Un precedente decreto ne aveva previsto la sospensione dall’8 marzo fino al 31 ottobre 2020: i colloqui con i congiunti o con altre persone si erano dunque svolti, quando possibile, “a distanza” con videochiamate su Skype o WhatsApp. La misura non è stata rinnovata nel nuovo decreto legge e questo ci preoccupa», racconta Ornella Favero. Che prosegue: «Tra le poche cose positive della pandemia c’è stata l’introduzione delle tecnologie in carcere, usate soprattutto per le videochiamate ai familiari. Le rivolte di marzo, con il rischio che si ripetano, era scongiurabili avvisando i detenuti alla chiusura alle visite, sarebbero seguite le telefonate e le videochiamate. Aumentare il numero di chiamate e di contatti video è l’unico antidoto alla violenza».

Dal Decreto ristori alle bozze del Recovery found il carcere però compare, ma solo marginalmente: «c’è solo il discorso dell’edilizia penitenziaria. Che le carceri italiane abbiamo bisogno di essere ristrutturate è un dato di fatto – ammette Chiaretti di Sesta Opera -, ma destinare solidi a nuove strutture è segno che la storia e i dati sono carta straccia: mai un nuovo calere ha risolto il problema del sovraffollamento». La soluzione è creare i più possibile percorsi che dal dentro portino fuori, al mondo del lavoro e «che la certezza della pena non venga scambiato con la certezza della galera. È pena certa anche quando un reo sconta una parte della pena lavorando fuori in misura alternativa. Anzi, questo ci rende tutti più sicuri», spiega la guida del CNVG.

Le carceri, anche prima della pandemia, sono sempre in emergenza

Non è finita qui, il bizantinismo della burocrazia italiana ha istituito forme di colloquio alternativo a quello in presenza attraverso la tecnologia. «Le videochiamate sono state aggiunte ma togliendo altri diritti o diradando questa possibilità nel tempo. Invece bisognerebbe facilitare i contatti soprattutto quando sono così rari come nel periodo che stiamo vivendo», testimonia il presidente di Sesta Opera San Fedele.

Tutto questo riporta al cuore del “problema carceri”: «Il carcere si vive sempre in una “perenne emergenza”, tra gli spazi vecchi e stretti, il personale che manca, i detenuti in sovrannumero: quando è arrivata la vera emergenza della pandemia il sistema carcere è stato incapace di affrontarla», ammette amareggiata Ornella Favero. Anche difronte al coronavirus il sistema penitenziario non è riuscito a far uscire coloro ai quali mancava un anno o anche meno di pena «perché nonostante quello che c’è scritto sul Decreto ristori – spiega Favero -, il carcere si è complicato la vita con la burocrazia e i braccialetti elettronici che non c’erano per tutti. Far uscire queste persone non metteva a rischio nessuno nella società. Farli uscire in tempi rapidi non avrebbe messo in ginocchio il sistema carcere commessi trova ora». Un’altra occasione persa a discapito dei detenuti.

Il futuro lavorativo dei detenuti

E chi esce dal carcere? Se era difficile trovare un lavoro prima, «con la pandemia sono andate in crisi le misure alternative al carcere e di lavoro all’esterno per i detenuti», spiega Guido Chiaretti.

Chi esce dal carcere vive una vera e propria “lotta tra poveri” per l’accesso al mondo del lavoro, «con il rischio che il carcere diventi una discarica sociale per chi “perde” quella sfida. Infatti anche le cooperative sociali, come le altre aziende, stanno soffrendo e tagliando opportunità di reinserimento lavorativo per i detenuti», rincara Favero.

È fondamentale quindi che i detenuti si sperimentino oggi anche con le tecnologie, perché se escono “analfabeti tecnologici” hanno chiusa, a doppia mandata, ogni porta nel mondo del lavoro. Per questo Sesta Opera ha costruito a Milano un progetto di lotta alla povertà nelle carceri, insieme al Ministero del Lavoro: «In questo mondo del lavoro un detenuto non troverà mai un impiego. Ritornando in carcere, molte volte. Abbiamo deciso di formare i detenuti», spiega Guido Chiaretti. Non solo ad una professione ma anche ad un modo per gestirla: dai rapporti con le banche fino alle disposizioni per i pagamenti mensili. «Per due anni dei tutor della banca Unicredit, che ha creduto in questo progetto, seguiranno un gruppo di ex detenuti per far si che tengano in piedi la loro attività. I dati parlano infatti del 97% dei fallimenti di imprese gestite da ex detenuti», conclude Chiaretti. Oggi è necessario più che mai costruire in carcere ponti verso la speranza. E il lavoro.


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