Economia & Impresa sociale 

L’economia sociale per riconciliare interesse pubblico e responsabilità privata

In Europa, nelle istituzioni comunitarie e in molti paesi membri, attualmente è in corso una discussione per definire un piano d'azione per l'economia sociale. La Commissione von der Leyen è impegnata a pubblicare un documento programmatico entro la seconda metà del 2021. L'economia sociale italiana contribuisca con idee forti

di Gianluca Salvatori

Nelle situazioni di incertezza radicale tipiche dei momenti di crisi sono le idee (più che le istituzioni o le organizzazioni) a orientare il cambiamento. Di idee appunto c’è bisogno per affrontare lo scenario che si prospetta dinanzi a noi. Idee in grado di misurarsi con trasformazioni economiche e sociali che la pandemia ha accelerato ma certamente non provocato dal nulla. Perché è da tempo che sperimentiamo gli effetti corrosivi dell’aumento delle disuguaglianze, di una distanza crescente tra garantiti e non garantiti, della sfiducia nelle capacità di governare la complessità del nostro tempo con le regole del secolo scorso. La crisi generata dalla pandemia – oggi che dopo il primo lockdown si è consumato il senso di solidarietà che era prevalso di fronte alla novità del male ignoto – sta solo rendendo più evidenti divisioni profonde già all’opera nel corpo della società.

Di fronte alle asimmetrie e alle disuguaglianze che avvelenano la vita sociale, noi crediamo che l’economia sociale sia una potente idea di cambiamento. Perché non riguarda solo l’organizzazione della vita economica, ma è molto più comprensiva. In quanto riflette una concezione, resa bene da Jean Tirole, economista premio Nobel, secondo cui: “l’economia non è né al servizio della proprietà privata e degli interessi individuali, né al servizio di chi vorrebbe utilizzare lo Stato per imporre i propri valori e far prevalere i propri interessi. L’economia ricusa il tutto­mercato così come ricusa il tutto­Stato. Perché è al servizio del bene comune”.

L’economia sociale, oltretutto, non è un’idea teorica ancora tutta da collaudare. In Italia è un settore che impegna migliaia di imprese e organizzazioni, con centinaia di migliaia di addetti, che operano con efficacia in molti ambiti, producendo occupazione di qualità e rispondendo a bisogni diffusi. Non lo strumento congiunturale per interventi di soccorso alla marginalità o la stampella del welfare pubblico, ma una scelta strutturale di trasformazione, con una visione di lungo periodo. Un approccio che non opera in via risarcitoria o compensativa con interventi di giustizia sociale ma mira a incentivare lavoro e mobilità sociale attraverso attività economiche sostenibili. Quindi, proprio il tipo di idea che serve a superare questa crisi prendendola sul serio e non minimizzandone la portata.

Tra i molti effetti che questa pandemia sta provocando, infatti, va segnalata un’inversione di tendenza rispetto al dibattito su Stato e mercato. L’emergenza economica post-Covid sta minando l’aspirazione delle imprese a scopo di lucro di sostituire lo Stato nella cura del benessere delle persone. A partire soprattutto dalla crisi del 2008, il mondo economico ha sviluppato una narrativa potente centrata sulla responsabilità sociale delle imprese. Le imprese – si è sostenuto – possono affrontare i temi della sostenibilità ambientale e sociale in modo più efficace rispetto alle istituzioni pubbliche. La loro capacità di ottenere risultati può trovare soluzione alle più grandi sfide del nostro tempo, coniugando le esigenze di profitto con quelle di impatto sociale. Dal welfare all'istruzione, dall'inclusione di genere all'innovazione nei servizi sociali, l'impegno delle aziende socialmente responsabili può fare la differenza su ogni argomento. Questo è il messaggio che i leader riuniti a Davos, gli amministratori delegati della Business Roundtable, i leader delle grandi corporation – impegnati a ridefinire il purpose e l’impact delle loro aziende – hanno cercato di trasmettere negli ultimi anni.

Improvvisamente però, con l’emergenza da Covid-19, è tornata in auge la consapevolezza che ci sono situazioni in cui le imprese tradizionali, di capitale, non sono in grado di tenere fede alla loro promessa di prendersi cura delle persone meglio (con più efficienza e efficacia) dello Stato. Convinzione che è stata il paradigma prevalente nella cultura economica di questi ultimi decenni. La pandemia ha avuto l'effetto di riportare in primo piano l'azione pubblica, ricordandoci che abbiamo affidato ai nostri governi l'autorità di spendere centinaia di miliardi per salvare aziende e posti di lavoro, di fermare ogni attività privata, di chiudere le scuole, di congelare la vita sociale e rinchiuderci nelle nostre case. Tutti compiti per i quali il mercato e le sue regole non sono adatti.

C’è però dell’altro. Se è vero infatti che in questa situazione le forze di mercato hanno mostrato i loro limiti, e lo Stato e le istituzioni pubbliche sono tornate a giocare un ruolo fondamentale, abbiamo però anche visto quanto l’efficacia della loro azione dipenda dal ruolo delle comunità e della società civile. Guardando alla fase più critica dell’emergenza, non è difficile rendersi conto che le misure prese dalle autorità pubbliche sono state efficaci non tanto per il timore delle sanzioni minacciate (il più delle volte inapplicabili), ma in generale per un diffuso senso civico che, rispolverato per l’occasione, ci ha fatto accettare limitazioni alla nostra libertà in nome di un bene comune. È prevalso un comportamento che ha mediato spontaneamente tra libertà individuale e responsabilità collettiva. Individuando un punto di convergenza tra l’interesse dei singoli e quello della comunità, senza del quale l’autorità pubblica non potrebbe affermarsi (a meno di ricorrere alla coercizione). Del resto, conosciamo bene il paradosso della democrazia. Da sola non riesce a rigenerare la cultura e i valori che la giustificano e sostengono. Serve un ethos condiviso, che definisca ciò
che si ha in comune, che unisca al di là delle divisioni.

Occorre una “riserva di senso” cui attingere. Questo è il tema fondamentale che va affrontato per guardare avanti, perché questo ethos comune è fragile e sottoposto ad una continua erosione. Fuori dai momenti acuti dell’emergenza tendiamo a trascurarlo. Anche perché non è mai acquisito per sempre ma richiede una costante rielaborazione, e non è un impegno banale. Richiede un lavoro di incessante reinvenzione senza del quale non c’è alternativa all’aumento delle divisioni sociali e dei conflitti, come la tragedia dei forgotten people, politicamente devastante, sta lì a ricordarci. Tornando a Tirole, quando l’economia si mette al servizio del bene comune può contribuire a mantenere o ricostruire questa “riserva di senso”, questo ethos. Non è la sola fonte di senso, naturalmente, ma può svolgere una funzione critica. Perché, ad esempio, può far comprendere che l’impresa non è necessariamente uno strumento di estrazione di valore a beneficio di pochi ma può invece agire come un meccanismo di cooperazione per risolvere problemi collettivi.

Perciò l’economia sociale è importante. Non solo per farsi carico di marginalità e povertà, ma perché il suo punto di forza è la riconciliazione di interesse pubblico e responsabilità privata. Negli ultimi decenni nei nostri paesi europei abbiamo promosso con successo lo sviluppo di un'economia di mercato competitiva, basata sui principi liberali della concorrenza e del perseguimento del profitto. Oggi, anche alla luce della situazione evidenziata dall'emergenza Covid-19, è fondamentale che un altrettanto forte impegno sia dedicato allo sviluppo di una solida visione dell'economia sociale come componente fondamentale per uno sviluppo equo e sostenibile. Favorendo un maggior pluralismo delle forme economiche e dei modelli organizzativi. È giunto il momento per l'economia sociale di uscire dall'ombra e di essere riconosciuta come uno dei pilastri per lo sviluppo delle nostre società future, come elemento strutturale del modello economico-sociale al quale guardare per uscire da questa faticosa transizione.

In Europa, nelle istituzioni comunitarie e in molti paesi membri, attualmente è in corso una discussione per definire un piano d'azione per l'economia sociale. La Commissione von der Leyen è impegnata a pubblicare un documento programmatico entro la seconda metà del 2021. Sarà un atto politico rilevante per l’utilizzo del bilancio europeo di coesione. Ma più ancora, sarà l’indicazione che la strategia di uscita della crisi accanto al green deal e alla digitalizzazione vede un terzo componente fondamentale: il pilastro dei diritti sociali. Noi vorremmo che a questo piano di azione europeo l’Italia partecipasse con un contributo all’altezza della vivacità e della varietà del mondo di imprese sociali e organizzazioni non profit del nostro paese. Ma il tema oggi è assente dall’agenda politica. È assente dalle politics ed è trascurato nelle policies. È assente dai piani di ripresa. È assente, punto. Anche in parte per responsabilità di chi nel mondo delle organizzazioni sociali – a forza di essere costretto in una condizione di minorità – ha finito per adattarsi, magari trovando gratificante contendersi la primazia di qualche nicchia. Ma soprattutto perché nel nostro paese non si è ancora compiuto il passaggio, in ambito politico, da una visione strumentale e minoritaria del non profit ad un
approccio strategico e lungimirante.

La richiesta di far spazio a questo tema è al centro di questo numero di Civic in uscita a gennaio, e più in generale dell’attività della Fondazione Italia Sociale. In altri interventi, documentati nelle nostre pubblicazioni, abbiamo avanzato proposte concrete: dall’attivazione e introduzione di meccanismi innovativi di fundraising su scala nazionale per una maggiore mobilitazione della ricchezza privata (lotteria filantropica e proposta di revisione della legge sulle successioni), al supporto alla pubblica amministrazione per migliorare l’utilizzo delle risorse pubbliche destinate al sociale, anche valorizzando i nuovi istituti che il nuovo Codice del Terzo settore mette a disposizione di una “amministrazione condivisa” (progetto di un fondo unico nazionale per lo sviluppo del Terzo settore e di centro di competenza per fornire consulenza ad enti pubblici e non profit ), dai progetti culturali per rafforzare un sentire comune sui temi del civismo, della responsabilità e dell’impegno sociale, in quanto presupposto indispensabile alla coesione sociale (piattaforma beCivic) al tema dell’accesso al credito e agli strumenti finanziari secondo criteri in grado di tenere conto della specificità di questo settore, sempre più underserved perché ignorato nel suo potenziale economico e occupazionale.

Ma quello che soprattutto ci sembra urgente, ora, è insistere che un piano di azione venga elaborato, ascoltando chi ha un contributo da portare. Perché non si tratta della richiesta di una corporazione che si batte per difendere la propria posizione, ma è un pilastro essenziale di un progetto di ripresa e rilancio del Paese.

*Segretario generale presso Fondazione Italia Sociale


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