Media, Arte, Cultura

Solo l’incontro e la responsabilità sottraggono terreno all’odio

Un dialogo con Marco Gatto che con Eraldo Affinati firma un libro sul razzismo e i modi per combatterlo: «Noi non ci diciamo buoni o antirazzisti, piuttosto vogliamo capire il fenomeno, istituire un rapporto di tipo critico, essere coinvolti e responsabili. Non ci si salva semplicemente dicendo sono antirazzista, bisogna buttarsi nella mischia, capire le ragioni profonde dell’altro e mettere in campo anche un processo di autoverifica su se stessi. Le etichette non bastano: i buoni, i belli, i giusti i positivi. Sono etichette dietro alle quali rischia di non esserci nulla»

di Riccardo Bonacina

“I meccanismi dell’odio”, recentissimo titolo di Mondadori è, nella definizione dei due autori, Eraldo Affinati e Marco Gatto (insieme nella foto), un dialogo sul razzismo e sui modi per combatterlo. Una promessa impegnativa rilanciata in copertina a cui però gli autori tengono fede nel dialogo serrato e sincero che si sviluppa per un centinaio di pagine indagando sulla crisi socio culturale che negli ultimi decenni, per dirla con Marco Revelli, ha fatto scivolare l’umano nel disumano, apparentemente senza troppi clamori, in una declivio lento, senza scossoni. Uno scivolamento sulle autostrade del digitale ma con effetti assai carnali.

Eraldo Affinati è scrittore famoso ma anche insegnante e fondatore, insieme alla moglie Anna Luce Lenzi, delle scuole Penny Wirton. Spesso insegnare e scrivere, in lui, si abbracciano, basta pensare a i due ultimi suoi titoli, Il sogno di un'altra scuola. Don Lorenzo Milani raccontato ai ragazzi e Via dalla pazza classe. Educare per vivere. Marco Gatto è un giovane (36 anni) docente di Critica letteraria all’Università della Calabria e promotore delle scuole Penny Wirton in Calabria.

Il libro è anche una sorta di autobiografia intellettuale ed umana di un’amicizia nata nelle settimane seguenti la rivolta nera di Rosarno nel gennaio 2010. Spiega Marco Gatto: «Dopo gli episodi di Rosarno, con Eraldo ci vedemmo in Calabria per una conferenza dedicata a un suo libro e lì riflettendo su queste vicende che avevano scatenato una discussione accesa non solo in Calabria ci venne in mente di rispondere con i nostri mezzi a quegli episodi che avevano aperto davanti a noi la sostanza di un’umanità degradata addirittura in schiavitù. Una realtà che non conoscevamo. E i nostri mezzi erano appunto la possibilità e l’impegno per aprire delle postazioni didattiche perché la conoscenza della lingua è il primo passo per la coscienza dei diritti e la possibilità di poterli esigere. La Penny Wirton in Calabria nasce lì, come reazione a quella scoperta. La scoperta degli immigrati schiavizzati e sfruttati, la scoperta di un'umanità silenziosa e sepolta di cui venivamo a conoscenza per quegli eventi che chiedevano la nostra azione»

Avete avvertito il senso di responsabilità che vi interpellava, un tema che percorre gran parte del libro, il vostro dialogo e la vostra amicizia anche intellettuale nasce quindi nel condividere questa chiamata alla responsabilità?

«Sì, nel libro, Eraldo cita un brano della lettera di Dietrich Bonhoffer che nel carcere di Tegel dov’era rinchiuso, scrive a Dietrich Wilhem Rudinger Bethge, figlio del suo amico più caro, il giorno del suo battesimo immaginandolo come il rappresentante delle future generazioni- Scrive Bonhoffer: “Abbiamo imparato un po’ tardi che l’origine dell’azione non è il pensiero ma la disponibilità alla responsabilità. Per voi pensare e agire entreranno in un nuovo rapporto. Voi penserete solo ciò di cui dovrete assumervi la responsabilità agendo”. Il concetto di responsabilità è l’idea con cui proviamo a chiudere il libro, la via per combattere i meccanismi dell’odio o almeno per provare a sottrarre terreno al razzismo. Il concetto di responsabilità è questo percorso, perché la responsabilità si costruisce nell’alterità, nel rapporto con l’altro, è un auto educazione a risolvere i nostri grovigli nel momento in cui mi rapporto con l’altro costruendo con lui qualcosa di nuovo e di diverso per me e per l’altro, qualcosa che poi per un altro ancora potrà essere un’esperienza da condividere.

Il libro, mi è parso di capire, ha avuto una gestazione lunga…

«La prima idea nasce andando da Mimmo Lucano, durante una visita fatta con Eraldo a fine 2017 quando partono le accuse contro di lui, volevamo, vedere, capire, sentire il sindaco. Ma il libro covava da qualche tempo per l’idea di metter su carta ciò che stavamo imparando con le scuole. L’intensificarsi poi di episodi razzisti nel Paese ha ancor di più spinto l’urgenza del libro. Libro nato prima della pandemia che ci ha richiesto un supplemento di riflessione sulle diseguaglianze sempre più evidenti e oggi più che mai emerse».

“I buoni francamente non mi piacciono, specie quelli che lo sono per partito preso”, dice Eraldo Affinati È uno dei temi ricorrenti, l’invito ad uscire allo scoperto, a procurarsi lesioni nell’incontro con l’altro, l’invito a mettere alla prova le proprie convinzioni come uno dei modi per guarire dai meccanismi dell’odio…

«Questo è uno dei temi che Eraldo ha sviscerato sempre, l’incontro con l’altro è sempre uno shock, una scommessa, un mettersi in discussione, ma è qualcosa che rivela sempre il nostro grado di compromissione con l’alterità e con un fenomeno come il razzismo. Noi non ci diciamo buoni o antirazzisti perché lo affermiamo, piuttosto vogliamo capire il fenomeno, istituire un rapporto di tipo critico, essere coinvolti e responsabili. Non ci si salva semplicemente dicendo sono antirazzista, bisogna buttarsi nella mischia, capire le ragioni profonde dell’altro e mettere in campo anche un processo di autoverifica su se stessi. Le etichette non bastano: i buoni, i belli, i giusti i positivi. Sono etichette dietro alle quali rischia di non esserci nulla.

L’invito a fare esperienza percorre tutto il libro e sembra che lo indichiate come la via maestra per sottrarre terreno all’odio. Incontrare l’altro è l’esperienza cardine, esperienza senza la quale le parole sono etichette vuote.

«Sì bisogna essere disponibili a modificarsi, a verificare sul campo le proprie convinzioni. Questo è un aspetto del libro che emerge molto nel confronto con i lettori. La parola ha bisogno dell’esperienza altrimenti diventa verbalismo. Eraldo su questo è sempre stato netto e i suoi libri lo testimoniano, la scrittura è una intensificazione dell’esperienza, senza esperienza non c’è scrittura. E non c’è neppure teoria senza una pratica. Questo invito continuo a comprendere l’esperienza nasce anche da una insoddisfazione per una cultura che non riesce più non solo a dare risposte ma neppure a porre domande vere. È l’idea stessa di cultura che va cambiata attraverso l’esperienza, un lavoro difficile. Ma già sentire un po’ di insoddisfazione è un primo passo».

Nel libro ritorna spesso anche l’esperienza di “orfanezza”, come la chiamate. Esperienza che accomuna te e Eraldo nonostante il gap generazionale.

«Si la definiamo orfanezza, anche se alcuni dicono orfanità, ed è la dimensione più biografica del libro che scorre per tutte le pagine sottotraccia ma ben presente e che poi esplode come allegoria del nostro tempo oltre che una nostra dimensione esistenziale. L’orfano è la figura di questa ricerca nella dimensione disorientante di traiettorie confuse in una società del disvalore e del disorientamento in cui è necessario costruire un orientamento diverso che noi vediamo possibile soprattutto nella scuola. La scuola e la dimensione pedagogica come terreno principale di impegno e di ricerca anche di padri».

Padri putativi scrivete? Ed Eraldo è per te uno di questi?

«Ho 36 anni e tra me e lui c’è sempre stato un rapporto padre figlio, una figura importante nella mia formazione, ma anche una figura oltre che paterna anche fraterna. Uno dei pochi intellettuali italiani a cui si può dare l’epiteto di maestro, non perché sia un venerabile maestro ma per la sua generosità, la disponibilità e capacità di stare nel mondo e nei rapporti senza schematismi. Ho avuto la fortuna di averlo in dono in carne ed ossa. Ma come padre putativi posso citare il mio professore di lettere al liceo, la mia prof di letteratura all’Università, e tanti altri modelli di carta, di lettura, maestri con cui anche dialogo leggendo i loro capolavori. Eraldo nel libro ne cita una teoria, da Tolstoj a Hemingway, da Bonhoffer a don Milani.Il maestro non è poi solo una figura lontana ma anche l’allievo che ha davanti alla scuola Penny Wirton da cui apprendi qualcosa che non conoscevi e che modifica il tuo immaginario. Non è la figura autoritaria, maestri si può essere tutti purchè ci sia quel patto di reciproca responsabilità di cui parlavamo. Perché, come scriviamo, la paternità è sempre putativa.»

Forse siamo alla vigilia di un nuovo lockdown come lo attraversi? Siamo davvero tutti nella stessa barca?

«Quel sussulto di condivisione che avevo visto in primavera che comunque aveva messo in atto un principio di responsabilità condivisa lo vedo molto affievolito, legittimamente, per una stanchezza perché l’estate aveva dato ossigeno alle libertà individuali di cui abbiamo bisogno. Spero di sbagliarmi e di poter dire che prevarrà ancora il titolo del nostro primo capitolo come coscienza diffusa “Vita tua, vita mea”».


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