Sanità & Ricerca

Aids e Hiv, perché è importante tornare a parlarne

Gli operatori di Casa Moscati: “Aiutiamo gli ospiti a cercare un senso alle loro nuove vite, nonostante la malattia”. Una lezione da non dimenticare, per un pericolo spesso sottovalutato dai giovani

di Asmae Dachan

Visto da vicino l’Aids fa paura, ma smetterne di parlarne è molto più pericoloso. Rispetto agli anni ’90, quando questa malattia si diffuse in modo drammatico, e presero il via campagne di sensibilizzazione e prevenzione, oggi sembra che si sia abbassata la guardia, soprattutto tra i giovani. Secondo i dati pubblicati sul Notiziario Istisan [1], infatti, nel 2019 l’incidenza più elevata di nuove diagnosi Hiv si riscontra nella fascia di età 25-29 anni. Una diagnosi che cambia per sempre la vita della persona colpita e che spesso è accompagnata da emarginazione e pregiudizio.

Nel 1992 Don Gianfranco Gaudiano, fondatore del Centro Italiano di Solidarietà di Pesaro – Ceis – insieme a Paolo Pierucci, decise di aprire Casa Moscati, una casa di accoglienza residenziale proprio per persone affette da infezione da Hiv e Aids prive di riferimenti abitativi, familiari e relazionali, che avevano bisogno di assistenza quotidiana. Lucia Magrini, la responsabile, di Casa Moscati e degli alloggi del Servizio assistenza domiciliare – Pas – insieme a Fabrizio Buroni, coordinatore della struttura e agli educatori Eloise Arduini e Luca Bartolucci, raccontano il loro impegno quotidiano con gli ospiti della struttura. Una volta non c’era nemmeno la consapevolezza della differenza tra l’aver contratto l’Hiv e aver manifestato l’Aids.

Il primo è un virus e spesso la persona resta per lungo tempo asintomatica. Piano piano la malattia si manifesta o si prendono patologie opportunistiche. L’Aids, invece, è la sindrome, sono diverse malattie che si manifestano per il deficit del sistema immunitario. L’Hiv si trasmette attraverso liquidi biologici, latte materno e scambi di sangue.

Negli anni ’90 la vita dei malati, ma anche degli operatori era molto difficile. “Rimasi molto impressionato una volta – racconta Fabrizio – quando telefonai a un padre per comunicargli il decesso della figlia e lui mi disse che non avrebbe partecipato al funerale, perché in quegli ultimi anni era morto a causa sua tante volte. All’epoca ancora non capivo come l’amore potesse sparire di fronte a simili tragedie, avevo giudicato quell’uomo. Poi ho compreso che queste persone in realtà vivono ai margini, sono spesso legate alla tossicodipendenza, conducono esistenze complicate, arrivando persino a rubare ai genitori per pagarsi le dosi, facendosi e facendo del male. Per questo il giudizio va sospeso”.

“In quegli anni i malati di Aids erano legati a uno stigma sociale – afferma Eloise – come se si ammalassero solo tossicodipendenti, omosessuali, prostitute, come se la malattia fosse una colpa. Nella nostra struttura da allora entrano persone che sono seriamente malate, che proprio per il loro stile di vita sono arrivate a diagnosi tardiva. Sono generalmente persone multiproblematiche, vengono dal mondo delle dipendenze (alcol, droghe e gioco), hanno problemi di natura psichiatrica e spesso le famiglie, anche se ci provano, non possono gestirle da sole. Qui trovano una rosa di professionisti, educatori, psicologi, psicoterapeuti, oss, un direttore sanitario, un’infermiera e il medico di famiglia. Tutti gli operatori maturano nel tempo una propria professionalità interdisciplinare proprio sul campo, attraverso una cura e un contatto quotidiano con gli ospiti”.

Il Ceis lavora in stretta sinergia con la sanità pubblica, in particolare con il reparto di malattie infettive di Pesaro, col primario Francesco Barchiesi, la dottoressa Enrica Casoli del dipartimento di salute mentale e la dottoressa Giovanna Diotallevi del dipartimento dipendenze. C’è un supporto continuo, una collaborazione professionale, ma anche umana, empatica, molto forte. L’unità funzionale che fa capo alla direzione del dipartimento delle tossicodipendenze, in base alle richieste che arrivano da servizi sociali, dal Comune, dall’assistente sociale dell’ospedale o da altre realtà, presenta la richiesta di accoglienza alle strutture territoriali che accolgono malati di Aids – nelle Marche oltre a Casa Moscati c’è Il Focolare di Ancona (opere caritative francescane) -. Queste ultime, se hanno posto, valutano se la persona è adeguata a vivere in una casa alloggio sulla base della relazione dei professionisti che presentano la domanda. “Il nostro non è solo un compito assistenziale – spiega Eloise – ma anche un modo per far riacquistare agli ospiti la propria autodeterminazione, aiutandole a ricostruirsi una vita, una rete amicale, cercare un lavoro. Se c’è dietro anche una famiglia si cerca di lavorare anche con loro”.

“Il nostro desiderio – spiega Luca – è accompagnare queste persone nella vita, non verso la morte. Negli anni ’90 questa prospettiva non c’era; oggi per fortuna la medicina ha fatto progressi e forse è meno doloroso stare accanto agli ospiti, ma paradossalmente è più complicato perché bisogna dare un senso a una vita riacquistata. Serve, da parte degli ospiti, un grande lavoro di consapevolezza e introspezione”.

Agli operatori, oltre che una grande professionalità, in un contesto simile è richiesto anche un notevole sforzo umano ed emotivo. Nei loro sguardi, sopra le mascherine che coprono il resto del viso, si coglie tutta la passione che mettono in ciò che fanno, che sembra più forte di ogni difficoltà.

“Un tempo era difficile anche trovare persone che venissero a lavorare nella struttura – racconta Fabrizio – c’erano pregiudizi e paure radicati. Oggi è diverso. Quelle che si hanno davanti sono persone sofferenti, che vivono ai margini e che sembrano non aver mai trovato un loro posto nel mondo. Noi definiamo questa casa uno spazio di cura, e gli ospiti vanno guardati, come insegnava Don Gaudiano, come persone”.

Il sostegno tra colleghi, l’essere uno la spalla dell’altro li aiuta anche nei momenti più difficili e li spinge a impegnarsi anche fuori dalla struttura, in iniziative rivolte soprattutto ai giovani, con testimonianze nelle scuole. “I giovani hanno meno pregiudizi degli adulti – racconta Eloise – ma anche meno consapevolezza. Il fatto che si sia abbassata l’età media in cui si contrae il virus è dovuto anche alla minore informazione. La problematica dell’Hiv/Aids racchiude molte sfaccettature, educazione all’affettività, alla sessualità, prevenzione primaria e noi cerchiamo di trasmettere valori come la cura di sé e la solidarietà, cercando di far capire ai ragazzi che non è un problema lontano”.

In occasione della giornata del 1dicembre, dedicata proprio alla lotta contro l’Aids, gli operatori di Casa Moscati si impegnano affinché si mantenga alta l’attenzione, non solo sul tema della prevenzione, ma anche affinché si abbia uno sguardo più umano verso gli altri.

“Intorno a questa malattia c’è assoluto silenzio – afferma Lucia – perché è una malattia che colpisce la trasgressione, ma è fondamentale, trasmettere la necessità del concetto di avere cura di sé e degli altri, perché il corpo che abbiamo è uno solo e non si può tornare indietro”. “In un momento in cui si parla di inclusione sociale – conclude Eloise – ci si rende conto che, invece, le persone colpite da Hiv/Aids sono ancora fortemente emarginate e subiscono ostilità”.

Nel giardino di Casa Moscati un ospite aveva coltivato gigli selvatici, oggi sciupati dal freddo autunnale. “La malattia gli sta togliendo, con il Parkinson, anche il controllo del corpo – racconta Lucia. Questi fiori raccontano al tempo stesso la sua delicatezza, ma anche la tenacia con cui coraggiosamente cerca di difendere la sua autonomia. Per noi è fonte di ispirazione”.

Note

[1] Volume 33, n. 11 – novembre 2020 redatto con il contributo del Comitato Tecnico Sanitario del Ministero della Salute e i referenti della Direzione Generale


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