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Cooperazione & Relazioni internazionali

Respingimenti e finanziamenti alla guardia costiera libica, ecco la fortezza Europa

"La macchina dei respingimenti, che dal 2016 ad oggi ha permesso alla Libia di rinviare al porto di partenza più di 60.000 persone, è il frutto di un’operazione che vede come principale partner l’Italia, con il supporto politico ed economico delle istituzioni europee – principalmente attraverso il Fondo Fiduciario per l’Africa - e, più recentemente, Malta". Il rapporto di Arci "Finanziare il confine"

di Redazione

Le politiche di esternalizzazione del controllo dei flussi migratori sono ormai il centro della politica su migrazione e asilo dell’Ue. Dal 2015 ad oggi per spingere la frontiera europea sempre più a sud, l’Ue e gli Stati europei hanno dovuto dotarsi di nuovi strumenti politici, legislativi e finanziari, con gravissime ripercussioni sui diritti umani dei migranti coinvolti. La discussione sul prossimo budget deve essere letta tenendo in considerazione le priorità definite nel nuovo Patto su migrazione e asilo che, come noto, punta a rafforzare le frontiere ed esternalizzare sempre di più il controllo della migrazione nei paesi terzi – unico punto su cui gli stati membri sembrano concordare. Le mura della Fortezza saranno protette dall’Agenzia della guardia di frontiera e costiera europea (EBCG, ex Frontex) che dispiegherà, da gennaio 2021, 10.000 nuove guardie di frontiera, con un aumento notevole della presenza al di fuori dell’Ue, mentre la collaborazione con i paesi terzi è tutta orientata ad attuare la politica di rimpatrio e fermare le partenze.

Come si finanzia l’esternalizzazione. Entro dicembre, previo consenso del PE, il Consiglio dovrebbe adottare il regolamento per il nuovo QFP 2021-2027, che entrerebbe in vigore dal 1 gennaio 2021.Il prossimo budget conterrà diversi elementi pensati per incentivare la partnership con i paesi di origine e transito per il contenimento dei flussi migratori irregolari e per l’attuazione della politica di rimpatrio, anche attraverso strumenti flessibili e fondi non programmabili da mobilitare in situazioni di emergenza o di crisi. Una flessibilità che, se non bilanciata attraverso monitoraggio e criteri sul rispetto dei diritti umani, andrà a scapito di prevedibilità, efficacia, trasparenza e controllo democratico. L’11 novembre è stato raggiungo un accordo tra PE e Consiglio per un budget di 1.8 trilioni di euro che prevede un aumento di 1,5 miliardi per gestione dei confini e Frontex. In totale la spesa per la gestione delle frontiere aumenterebbe del 120% rispetto al budget attuale, mentre quella per asilo e migrazione di circa il 30%. Inoltre, il 70% della spesa per migrazione e gestione delle frontiere verrà utilizzata per rafforzare le frontiere esterne dell’UE, attuare la politica di rimpatrio e rafforzare il controllo della migrazione nei paesi terzi, cioè oltre 16 miliardi su un totale della rubrica di 22,7 miliardi, a scapito delle risorse per rafforzare il sistema comune d’asilo e l’accoglienza. Il cuore della dimensione esterna della migrazione quindi sarà invece dato dallo strumento per il vicinato, lo sviluppo e la cooperazione (NDICI). Gli obiettivi sulla politica migratoria sono vaghe e fanno genericamente riferimento a gestione della mobilità, capacità di reazione in situazioni di emergenza legate a forti pressioni migratorie e intervento sulle “cause profonde delle migrazioni irregolari e forzate”, a cui è destinato il 10% del fondo al momento per un totale di 7,18 miliardi. La condizionalità degli aiuti è centrale nella discussione sulle risorse per l’azione esterna, e in particolare sull’NDICI, destando molte preoccupazioni sul rispetto dei principi di efficacia dello sviluppo, favorendo invece obiettivi emergenziali e di politica interna. Ancora, tutti i fondi del settore affari interni avranno una “dedicata componente significativa” per la dimensione esterna “compresi i rimpatri e una cooperazione rafforzata con i paesi terzi, in particolare quelli confinanti con l'UE o prossimi alle frontiere dell'UE”.

Il Mediterraneo Centrale sancisce il naufragio del Diritto Internazionale. Dal Gennaio 2020 ad oggi quasi un migrante su due partito dalle coste libiche è stato vittima di una procedura di “respingimento per procura” da parte delle “guardie costiere libiche”. 10.000 persone respinte verso Tripoli, abbandonate ad un destino di detenzione, violenze e sfruttamento, mentre sono più di 500 le vittime nel Mediterraneo nel 2020, senza contare i naufragi fantasma. La macchina dei respingimenti, che dal 2016 ad oggi ha permesso alla Libia di rinviare al porto di partenza più di 60.000 persone, è il frutto di un’operazione che vede come principale partner l’Italia, con il supporto politico ed economico delle istituzioni europee – principalmente attraverso il Fondo Fiduciario per l’Africa – e, più recentemente, Malta. Attraverso l’esternalizzazione del controllo delle frontiere la politica di criminalizzazione della solidarietà, la creazione di una zona SAR libica e l’inerzia delle navi di salvataggio nazionali, negli ultimi anni si è quindi lasciato il Mediterraneo alla “Guardia Costiera Libica” per operare respingimenti, in una sistematica violazione del principio di non refoulement. Dopo l’arrivo in Italia di 11.620 tunisini nel 2020, la risposta italiana si è esplicitata su diversi fronti: la minaccia di tagliare i fondi allo sviluppo se la Tunisia non si fosse impegnata nel bloccare le partenze; l’incremento settimanale di espulsi fino a 500 persone al mese; l’attivazione con la Francia di un nuovo piano di collaborazione con la Tunisia dopo l’attentato di Nizza, che somiglia a un blocco navale e a un nuovo sistema di respingimenti per procura. Chi riesce a scampare da intercettazione e respingimento, in molti casi è destinato ad un altro limbo giuridico: le navi quarantena, nate con il pretesto di contenere l'epidemia da Covid19. Di fatto un sistema discriminante, perché creato ad hoc solo per gli stranieri, che comporta gravi violazioni dei diritti soprattutto nel caso della detenzione di minori e del trasferimento di migranti positivi al test Covid.

Impatto della politica migratoria europea in Mali. Grazie al Fondo fiduciario per l’Africa istituito nel 2015, gli Stati partner vengono incoraggiati a sorvegliare i confini difficilmente controllabili, poiché situati nel cuore del deserto e spesso sotto il controllo di gruppi armati. Il Niger dal 2015 ha criminalizzato il trasporto dei migranti in cambio dei fondi stanziati dall’Ue, sino a ridurre i flussi migratori da 150.000 a 5 o 10 mila persone nel 2019. Tuttavia, stando ai fatti, i candidati all’esilio non hanno mai smesso di mettersi in viaggio, ma molti di loro hanno scelto altre rotte, più lunghe e più pericolose. Infatti, l’azione dell’UE in Niger ha involontariamente determinato la riapertura delle rotte situate in zone instabili a nord del Mali dove il trasporto dei migranti non è più unicamente in mano ai civili e i migranti sono divenuti la priorità di gruppi armati, che approfittano di questo nuovo mercato. La strada nel deserto è difficile e dura molti giorni, qualche volta più di una settimana, specialmente da quando i veicoli sono fermati ai check point dove i migranti vengono ricattati minacciati, picchiati o torturati, denudati, o uccisi. Il 28 aprile, i membri del Consiglio europeo hanno espresso nuovamente serie preoccupazioni “di fronte al deterioramento della situazione securitaria e umanitaria nella regione del Sahel”, mentre il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, definisce la situazione nel Mali del nord come “complessa” e “preoccupante”, tanto che nonostante siano presenti le forze militari di Barkhane e della MINUSMA, “nella regione di Gao, si è registrata un’infiltrazione costante di gruppi terroristici armati, a tal punto che alcuni interlocutori paragonano la situazione attuale a quella del 2012”.

Come se niente fosse: la transizione sudanese e la politica migratoria dell’Ue. Dalla crisi del 2011 in Libia, la rotta dal Sudan alla Libia è diventata l’asse principale percorso dai migranti dal Corno d’Africa al Mediterraneo. Nel 2014, Khartoum è diventata la capitale della politica migratoria dell’UE nella regione, grazie al lancio del “Processo di Khartoum”, e nel 2015, il Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa stanzia 160 milioni di euro per il Sudan per diversi progetti, tra cui i due progetti regionali che sarebbero stati sospesi nel 2019, che avevano l’obiettivo di addestrare la polizia di frontiera sudanese e di creare un centro regionale di scambio di informazioni a Khartoum. Il partenariato tra Sudan e UE non solo permette al regime di fare dimenticare le guerre che porta avanti nelle zone limitrofe, che hanno generato milioni di sfollati, ma anche di sfruttare la questione migratoria per fare pressione sull’UE. Dopo il colpo di stato del 2018 che ha sostituito il dittatore al-Bashir con un consiglio militare, nel luglio 2019 l’Unione europea ha annunciato la sospensione dei suoi progetti contro la migrazione irregolare in Sudan. Per rispondere alle richieste dell’Unione europea, Khartoum aveva scelto di dispiegare presso le sue frontiere con Libia e Egitto migliaia di uomini delle Forze di sostegno rapido (FSR), un’organizzazione paramilitare che riunisce le milizie arabe janjawid e che nel 2017, aveva invece ormai istituito un vero e proprio monopolio del trasporto dei migranti, tassando i migranti e i passeur civili, e sottoponendo i migranti a violenze e abusi, per poi venderli ai trafficanti libici. L’annuncio della sospensione dei progetti nel luglio 2019 – dopo il colpo di stato del 2018 che ha sostituito il dittatore al-Bashir con un consiglio militare – non sembra comunque indicare una presa di coscienza, tant’è che i progetti sono stati semplicemente spostati a Nairobi nel settembre 2019. Tutto indica che la politica di esternalizzazione dell’UE in Sudan continuerà, mentre la transizione democratica e la nomina di ministri civili permetterebbe all’UE di mostrare partenariati più accettabili e di giustificare la sua relazione con il Sudan sulle migrazioni.


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