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Lendlease: le Social City? Sono il futuro del real estate

«Non si possono immaginare interventi, in zone sfortunate e periferiche delle città, come isole felici. C’è bisogno di riconnettere aree e ambienti con il contesto, tenendo bene a mente che gli spazi devono avere un valore per tutti. Anche per chi vive già lì e non deve essere escluso dalla novità». L'intervento di Andrea Ruckstuhl, Head of Italy and Continental Europe di Lendlease sul numero di Vita di dicembre

di Lorenzo Maria Alvaro

«Quello che facciamo da sempre è rigenerazione urbana. Il nostro fondatore Dick Dusseldorp era un migrante, un olandese trasferitosi in Australia per cercare fortuna. Negli anni 70 spiegava che le grandi aziende dovevano rendere conto agli stakeholders non solo sul fronte economico ma anche su quello sociale. Questo dna è ancora molto forte oggi». A parlare è Andrea Ruckstuhl, Head of Italy and Continental Europe di Lendlease, leader del settore real estate, spiegando il progetto di riqualificazione dell’area ex Expo Milano, che vede protagonista la sua azienda.

Non un dibattito sulle soluzioni edili immaginate quanto sulla scelta di proporre Programma 2121, un’azione sperimentale con cui ha formato e assunto dieci ospiti del limitrofo carcere di Bollate. Perché una multinazionale dovrebbe interessarsi ai detenuti? «Tutto è nato da un’esigenza prettamente business. Naturalmente costruire vicino ad un carcere è un problema e una criticità. Un minus commerciale. Abbiamo pensato a come trasformarlo in un plus», spiega Ruckstuhl. Non si deve però pensare a un’operazione di green washing o ad una scappatoia che rendesse più accettabile il vicino scomodo. Per Lendlease infatti al centro del proprio impegno c’è l’inclusività. «Non si possono immaginare questi interventi, in zone sfortunate e periferiche delle città, come isole felici. C’è bisogno di riconnettere aree e ambienti con il contesto, tenendo bene a mente che gli spazi devono avere un valore per tutti. Anche per chi vive già lì e non deve essere escluso dalla novità».

Ed è così che si muove Lendlease. «Abbiamo la consapevolezza che è questa la vera innovazione, al di là di quella tecnologica», sottolinea Ruckstuhl. Una responsabilità sociale che per l’azienda, per cui il profitto è sempre centrale, ha una ricaduta economica positiva e un ruolo strategico. «Oggi su Milano ogni contratto Lendlease contiene una clausola sociale che prevede, a fronte della partecipazione a progettualità sociali, un riconoscimento in termini di punteggio», spiega il manager, «un’impresa, un’azienda o un consulente possono non scontarci il prezzo e recuperare il punteggio pieno aderendo ad un iniziativa della clausola sociale. Abbiamo tradotto in business qualcosa che prima rimaneva relegato ad altri ambiti». E la convenienza? «È facilmente individuabile. In primo luogo basterebbe pensare che su Mind, un milione di metri quadri, abbiamo ottenuto l’approvazione del piano integrato d’intervento in soli 15 mesi, a fronte di tempi che normalmente sono di 5 anni. Questo è stato possibile grazie al dialogo, attraverso Fondazione Triulza, con tutte le realtà speciali del territorio, e alla creazione di un contesto di fiducia. Abbiamo esempi di progetti che non sono mai nati proprio perché mancava tutto questo», spiega il manager.

E nel resto mondo vale lo stesso. «Il valore in termini economici è un plus quantificabile ovunque. Negli ultimi 5 anni siamo cresciuti del 50% e vantiamo 113 miliardi di dollari di progetti di rigenerazione urbana in sviluppo. Questo è possibile grazie al passaparola generato da progetti di successo. Ma bisogna avere la capacità di leggere il territorio e interpretare le esigenze delle comunità».

«Nessuna azienda nasce per fare profitto. All’origine c’è sempre una passione, un desiderio o un sogno. Poi nella managerializzazione dell’impresa si perde questa spinta e viene meno il dna. L’unico modo di evitarlo è mantenere una cultura valoriale forte». In questo sono sostanziali i nuovi talenti. «Faccio da mentor in giro per il mondo ai giovani che cominciano a lavorare con noi», racconta Ruckstuhl, «con le nuove generazione il business only non funziona più. Loro vogliono il purpose, il perché si fanno le cose. Se non hai da comunicare su questo fronte, andranno altrove».

L’Italia poi è particolare in questo senso. «Le nuove generazioni sono in assoluto molto più mature e decise su questi argomenti. I talenti italiani hanno in più la formazione umanistica. Cioè una visione in cui tutto è riferito ancora all’uomo, l’uomo è al centro. Questo mette l’Italia in una posizione strategica nel quadro europea. Solo con questo approccio infatti si evita il rischio che questo nuovo paradigma sia vissuto come passeggero. E invece siamo al cospetto di una rivoluzione del fare impresa», conclude il manager.


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