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La crisi dei profughi siriani in Libano

Un devastante incendio ha distrutto, lo scorso 27 dicembre, un grande campo profughi in località Minyeh, in Libano, che accoglieva un centinaio di famiglie siriane. Pare si sia trattato di un incendio doloso. Il profugo è considerato l’ultimo dei derelitti, nessuno se ne preoccupa, ci dice un profugo

di Asmae Dachan

Un devastante incendio ha distrutto, lo scorso 27 dicembre, un grande campo profughi in località Minyeh, in Libano, che accoglieva un centinaio di famiglie siriane. Secondo la ricostruzione presentata dai volontari di Operazione Colomba, il Corpo non violento di Pace dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, si tratta di un incendio doloso, che costituisce l’ennesimo episodio contro rifugiati siriani nel Paese dei cedri, dove la gravissima crisi politica ed economica sta esasperando gli animi della popolazione. Ad appiccare le fiamme, si legge in un comunicato di Operazione Colomba, sarebbe stato “un cittadino libanese che impiegava diversi siriani, verso i quali aveva accumulato un debito di soldi per stipendi non pagati”. Secondo questa ricostruzione, dopo alcune nuove ostilità l’uomo libanese “si sarebbe presentato insieme da alcune persone in possesso di armi e taniche di benzina e avrebbe appiccato l’incendio”. Gli abitanti del campo hanno raccontato anche che “i libanesi hanno addirittura impedito l’accesso ai mezzi dei vigili del fuoco, facendone ritardare l’intervento, finché il campo non è stato raggiunto interamente dalle fiamme, e che hanno infine intimato a tutti gli altri campi profughi della zona di non far entrare nessuno sfollato da quel campo, oppure i loro insediamenti avrebbero fatto la stessa fine”. Subito dopo i fatti e dopo che l’esercito ha preso visione dei filmati delle videocamere installate nel campo, sei siriani sono stati arrestati e uno di loro si trova ancora in prigione, mentre i due libanesi responsabili sono stati arrestati e rilasciati dopo due giorni.

Il campo in questione non è solo uno dei tanti insediamenti informali costruiti dai profughi che hanno superato il confine a causa della guerra, ma esisteva già molto prima del 2011 ed era abitato da lavoratori stagionali siriani. La zona di Al Minyeh non è quasi mai stata teatro di episodi di violenze contro i siriani di tale portata. Il fatto che questo campo, presente da tanto tempo, sia stato coinvolto in un fatto tanto grave, fa riflettere su quanto stia salendo il livello di intolleranza nel paese.

Chiaramente non sono mancate le iniziative di chi, alle barbarie, ha voluto rispondere con la solidarietà, come i tanti cittadini che subito dopo l’incendio hanno messo a disposizione le loro case e le merci dei loro negozi per chi aveva perso tutto per la seconda volta. In alcune interviste a cittadini libanesi sull’accaduto, molti si sono lamentati del fatto di essere poveri come i siriani che stanno ricevendo aiuti, ma che diversamente da questi ultimi, non ricevono aiuti di alcun tipo. È una vera e pericolosa guerra fra poveri. Ad oggi non è ancora stata trovata una soluzione per gli ex abitanti del campo, che attendono una decisione da parte della regione di Akkar e del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, i quali sembrano non avere intenzione di permettere la ricostruzione del campo nella stessa zona. Questo incendio, infatti, è avvenuto a poco più di un mese dagli episodi di razzismo che si sono verificati a Bsharre, dove 1400 profughi siriani erano stati espulsi dopo che un profugo aveva ucciso un uomo libanese.

Vita non profit è riuscita mettersi in contatto con un panettiere siriano che era tra gli abitanti di Basharre, (che chiameremo Ahmad per tutelarne l’identità) e che ci ha fornito questa testimonianza.

“Vivo a Bsharre da 9 anni e 7 giorni, da quando ho dovuto lasciare la mia casa in Siria a causa delle ostilità. Ho sempre lavorato in un forno da quando sono arrivato qui, mentre in Siria ero insegnante e mi mancava poco per conseguire il dottorato in Studi internazionali. La gente del posto ci aveva accolto bene e non ci sono mai stati problemi particolari. Dopo l’episodio dell’omicidio e la conseguente espulsione di noi siriani, solo trenta famiglie sono tornate, pur non essendoci alcuna garanzia per la loro sicurezza. La municipalità e le forze di sicurezza ora infatti consentono solo di raggiungere il proprio posto di lavoro, ma non più di risiedere nella zona. Sono sedici giorni che non vedo mia moglie e mio figlio, a cui non è più consentito venire qui. Dopo che ci eravamo adattati a questa nuova vita, dobbiamo ricominciare da capo, in un contesto dove non ci sono garanzie e dove i nostri diritti sono comunque violati. Mia moglie si sta laureando, ma ai profughi non viene comunque consentito di poter lavorare facendo valere il proprio titolo di studio. I bambini siriani possono frequentare la scuola sono nel pomeriggio, in una situazione di ghettizzazione incredibile e certamente in un clima non ideale alla loro formazione e crescita. Tutte le famiglie sono nuovamente sfollate in condizioni disumane, all’addiaccio, e si sta valutando la possibilità, tramite la Turchia e il governo ad interim di Idlb, di trasferire tutti i siriani nel nord ovest della Siria, ma anche lì la situazione è molto preacaria. Il profugo è considerato l’ultimo dei derelitti, nessuno se ne preoccupa. All’improvviso siamo tornati ad essere estranei, a non avere più nulla se non gli abiti che indossiamo. Non sappiamo davvero cosa fare”.


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