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La frontiera missionaria: l’opera di Giorgio Pontiggia nell’Etiopia in guerra

Al confine con Sud Sudan, attorno al campo profughi di Pugnido, si sono formate centinaia di città fantasma: accampamenti senza acqua corrente o servizi igienici. In questa zona di mondo dimenticata dal mondo, grazie all'opera salesiana sono rifiorite speranze, dignità e una nuova consapevolezza: guerra e clima sono eventi sempre più interconnessi

di Marco Dotti

Accanto al villaggio di Pugnido si trova il più antico campo profughi dell’Etiopia, quasi irraggiungibile nella stagione delle piogge. Diecimila persone, prevalentemente di etnia anyuak, vivono nel campo.

Padre Giorgio Pontiggia, deceduto il 27 dicembre scorso a causa del Covid, lavorava con loro da molti anni. Nel 2003 aveva creato una missione salesiana proprio in quest’area cruciale per gli equilibri geografici, politici e sociali dell'Etiopia. Un'area strategica ma dimenticata, vista la sua prossimità con il Sud Sudan, e che i media locali e internazionali hanno non a caso definito «la frontiera missionaria».

A Pugnido, nel territorio di Gambela, sotto una temperatura che spesso supera i 40° C, la malaria è molto diffusa: non c'è acqua corrente, non ci sono servizi pubblici.

Qui, però, oggi si trovano una grande opera salesiana che comprende una parrocchia, un oratorio, una scuola primaria di base, un istituto professionale superiore e un ostello. Una costellazione che aiuta la popolazione locale a ritrovare speranza e a lavorare affinché qualcosa cambi davvero.

Costrure oasi nel deserto della guerra

Oggi, che l’Etiopia è nuovamente sottoposta a pressioni interne e i venti di guerra hanno ripreso a soffiare, l’opera missionaria di Pugnido, voluta e per anni gestita da padre Giorgio, mostra ancor di più la propria importanza.

Padre Pontiggia si era trasferito in Etiopia nel 1990. Aveva quarantasette anni e uno scopo: costituire una punta avanzata della congregazione, testimonianza della missionarietà dell’opera salesiana di Sesto San Giovanni (Milano), dove era stato parroco e per cinque anni aveva diretto l’oratorio. Con la comunità di partenza ha mantenuto i rapporti, come glielo consentivano i nuovi impegni a docidi ore e più di volo aereo nel nuovo “oratorio” a Pugnido. «Anche adesso in Etiopia sento che quegli anni e quelle persone mi hanno plasmato e mi ispirano a mantenere il Cuore Oratoriano del Buon Pastore», confessava don Pontiggia.

In Etiopia, padre Pontiggia ha portato il “metodo” salesiano: l’aggregazione dei giovani come motore dell’intera attività di annuncio cristiano e di sviluppo umano. «Quando sono arrivato a Pugnido – raccontava padre Giorgio – ho trovato una quarantina di cattolici, ma già dopo un anno ho ricominciato ad amministrare i battesimi. Un po’ alla volta, con una situazione di relativa calma e per le molte attività create in parrocchia e attorno ad essa, la vita della comunità cattolica è ripresa con vivacità».

A Pugnido l’Etiopia è come se si insinuasse nel Paese confinante, e quella di Gambella è la regione che fa da punta avanzata. Su una popolazione già provata da continue tensioni economiche e politiche è andato a gravare il peso dei campi profughi: città improvvisate in cui si riversano persone private di ogni bene, se non qualche coperta e poche pentole, “straniere” a se stesse oltre che agli altri.

«Sono ormai quasi ventimila», scriveva don Pontiggia nel 2014 dopo il Natale vissuto con loro. «Ed è davvero impressionante vedere una distesa di tendoni dove alloggiano famiglie intere, prive di tutto. Ogni domenica celebriamo la santa Messa in mezzo a loro».

In quest’area critica, dove l’Etiopia si confonde col Paese confinante, i luoghi di culto diventano centri di assistenza umanitaria e di resistenza umana. Gli oratori mostrano il loro valore generativo, non solo riparativo e si fanno motori di sviluppo locale.

I giovani leva per il futuro

Pugnido è stato spesso definito un «buco nero». Uno spazio vuoto, dimenticato al mondo. Ma la capacità di don Pontiggia ha portato speranza e fiducia anche in quel “vuoto”, suscitando una nuova coscienza ambientale, sviluppando una rete di difesa della foresta minacciata dalla desertificazione e dall’impoverimento dei terreni.

Rivolgendosi ai giovani dell’Istituto Elvetico di Lugano, nel novembre 2014 così Padre Pontiggia descriveva la situazione: «la siccità che ha colpito la Somalia e la Somaly Region dell’Etiopia non ha raggiunto direttamente queste terre, ma gli effetti della siccità si sentono nel forte rincaro dei prezzi degli alimenti e nella scarsità di approvvigionamenti. Il lavoro è continuo, senza tregua: non abbiamo avuto né ferie né vacanze per l’attività di agricoltura e ri-forestazione».

Un tema, quello degli effetti dei cambiamenti climatici, che oggi si intensifica e si sovrappone alle conseguenze delle guerre esterne e dei disordini interni.

Ma la leva per rispondere a queste conseguenze resta sempre e soltanto questo: «i giovani». I giovani, insegnava padre Pontiggia, «sono i veri protagonisti della missione, hanno una forza ed un entusiasmo incredibili, trasmettono gioia e voglia di vivere. Questi giovani sono una grande speranza per il futuro».


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