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Opportunità e bisogni nella scuola che cambia

La riflessione sulla didattica a distanza è la punta dell’iceberg di un sistema-scuola che necessità di un ripensamento radicale delle politiche educative. Abbiamo bisogno di sostenere la carne viva dei nostri ragazzi. Di accompagnarli a tradurre le tante situazioni di confinamento fisico, e quindi di distanziamento sociale, in opportunità per aprirsi a nuove strade che siano percorsi consapevoli di legami di senso

di Angelo Palmieri

Sul teatrino della politica assistiamo a giochetti che danno la dimensione di una dichiarata rinuncia all’assunzione di inderogabili responsabilità, soprattutto del farsi carico della situazione di disagio in cui versano i nostri giovani, la cui stasi inerziale rischia di produrre rischiose conseguenze nel futuro prossimo del nostro Paese.

Abbiamo bisogno di sostenere la carne viva dei nostri ragazzi. Di accompagnarli, senza deliri paternalistici, a tradurre le tante situazioni di confinamento fisico, e quindi di distanziamento sociale, in opportunità per aprirsi a nuove strade che siano percorsi consapevoli di legami di senso. Ma sarebbe una pia illusione ritenere di poterlo fare in nome del padre del patriarcato. Questa rappresentazione è oltremodo desueta. Ormai si è prodotta una irreversibile evaporazione della figura del padre tradizionale, come giustamente osserva Recalcati, recensendo il libro La strada di Cormac McCarthy, un libro in cui figlio e padre sono configurati come simbolo di due generazioni messe a confronto con un evento apocalittico senza precedenti che ha gettato il mondo nella cenere: dinanzi ad una visione apocalittica di diffusa desertificazione il padre può e deve prendersi cura del proprio figlio, non dall’alto della grandezza del suo Nome, ma dal basso dei suoi piedi. Con questo a voler indicare il bisogno di un incedere, seppure non di rado incerto, comunque capace di gesti e testimonianza che concorrano a ridare significato ad un tempo evanescente, ma che non rinuncia a definire quel carico di speranza “non ancora” convintamente gravato sulle nostre spalle.

Un agire comunicativo e contenuti di senso determinati anche dal fervoroso slancio di un figlio, che, come ci suggerisce sempre McCarthy, si rivelerà capace di dare profondità al tempo, svincolato dalla immediatezza del presente, e rendere ancora possibile un nuovo orizzonte, alieno da una visione monologica della vita.

Ciò sarà possibile se ci si impegna nella foschia della pandemia a far convergere ogni sforzo – nella definizione prima e con la costruzione dopo – di un patto intergenerazionale, atto a trasformarsi in contratto educativo. Francamente non si intravedono altre strategie d’uscita.

A ogni piè sospinto si è sottolineato sia un vuoto sia una assenza di elementi valoriali in grado di orientare proficuamente le vite povere di elementi identitari dei nostri ragazzi, determinando spesso comportamenti di dipendenza dalla sostanza venefica, investita di un grande valore simbolico, ma sempre più espressione di disagi e moneta di scambio affettivo.

Sul ritorno tra i banchi (“mobili”) la confusione è totale e ancor più spadroneggia l’improvvisazione, figlia della mancanza di coraggio di scelte chiare: in questa “crisi di infuturazione” che caratterizza i figli del nostro tempo, privarli della scuola, come comunità di cura per eccellenza, costituisce la negazione della relazione (proficua) “fianco a fianco”, dell’esercizio teso ad individuare scopi attivi determinati mediante un lavoro di mediazione simbolica. Diversamente, la partita educativa sarà davvero confusa.

La didattica a distanza, come forma di autolockdown, (contraddizione in termini!), è innegabile che ci privi di una circolarità e dell’ardore di farci ascolto attivo ed empatico delle paure e delle fragilità che diversamente sfociano in forme di autolesionismo e violenza estrema. Con inaudita frequenza negli ultimi giorni abbiamo assistito a forme di protagonismo negativo – come le risse tra giovanissimi – che meriterebbero maggior risolutezza da parte delle famiglie. Ha ragione Aldo Bonomi nell’affermare che le famiglie purtroppo non bastano più perché incapaci di controllare e indirizzare, mentre urgono risposte concrete ed interventi celeri.

Ma sia chiaro, al di là di ogni finzione, la riflessione sulla didattica a distanza è la punta dell’iceberg di un sistema-scuola che necessità di un ripensamento radicale delle politiche educative e di riduzione dei gap in termini di carenze strutturali, in particolare nel Mezzogiorno del nostro Paese che condanna molti giovani all’immobilità sociale. Don Milani asseriva che se si perdono i ragazzi più svantaggiati la scuola non è scuola, è un ospedale che cura i sani e respinge gli ammalati.

Non possiamo dimenticare che ancora oggi centinaia di migliaia di ragazzi sono in condizione di svantaggio, colpevolmente estromessi da ogni possibilità “residuale” di relazione e conoscenza perché sprovvisti di tablet e pc, aggravando così situazioni di disuguaglianza difficilmente recuperabili.
Si aggiunga a tutto questo la sollecitazione di attenzione che ci proviene dalla medicina territoriale e ospedaliera circa la forte crescita dell’emergenza psichiatrica in pre-adolescenza e adolescenza.

Le misure di confinamento e il distanziamento innegabilmente hanno accresciuto le probabilità da parte della fascia adolescenziale di sperimentare depressione e disturbi legati all’ansia. Un quadro decisamente preoccupante che richiede l’adozione di interventi che privilegino l’ascolto e il sostegno psicologico al pari di tutte quelle altre forme di sostegno economico previste dai relativi decreti.
A tal proposito c’è chi ha suggerito l’attivazione di “voucher psicologici”, un’idea, a mio parere, tutt’altro che peregrina.

La preoccupazione del ristoro economico non può derubricare l’impegno di chi ha la responsabilità politica, sociale ed educativa di porre in essere nuovi e innovativi modelli di servizio che possano garantire ai nostri figli concrete opportunità di socialità non consegnate alle distorsioni di un mondo virtuale con i suoi meccanismi di semplificazione. E penso all’azione propulsiva e generativa, in chiave territoriale, del Terzo settore nel pieno riconoscimento di co-protagonista delle politiche al servizio del bene comune delle comunità, rimarcando il decisivo ruolo in chiave sussidiaria, per nient’affatto subalterna alle politiche pubbliche.

Abbiamo bisogno di un cambio di prospettiva che sottolinei il prendersi cura come anima della moralità. La cura è farsi carico del bisogno dell’altro, è assunzione di responsabilità, è obbligo di attenzione, è costruzione di un legame intergenerazionale. Come dice papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata degli Ammalati, “bisogna mettere in grado le persone di vivere un’esistenza piena e creativa, sviluppando il loro potenziale e organizzandosi una vita significativa e all’altezza della loro uguale dignità umana”. Fare questo significherebbe saper “vedere il gelsomino tra le ombre di un mondo chiuso”, saper scrutare più in là, più in profondità, più in alto.

Questo impegno non può essere tradito, non si può stare ad aspettare ulteriormente.

La pianificazione di strategie sembra irretita nelle maglie di un confinamento della volontà. Non è più tempo dell’indugio. Non possiamo storcere il nostro sguardo dai più fragili.

Ce lo chiede il futuro dei nostri figli e del Paese che sarà!

In apertura photo by Carl Jorgensen on Unsplash


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