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L’uomo vero è al piano terra della Questura

Si fa presto a dire “migranti”. Nicoletta Ferrara, mamma affidataria di sei giovani africani insieme al marito Antonio Silvio Calò, invita a trasformare lo sguardo. Perché “l’uomo è una meraviglia”, come racconta nel suo libro A casa nostra, pubblicato da EMI Editrice Missionaria Italiana

di Nicoletta Ferrara

Ho accompagnato Ibrahim in Questura, perché doveva presentarsi per ricevere il documento che attesta il suo diritto alla protezione umanitaria. Seduta nella sala d’attesa, gremita di persone, ho passato due ore belle, davvero tanto belle.

La Questura è una zona di transito dell’umanità in cerca di riconoscimento. Il piano terra è un luogo dove si incrocia l’uomo. Uomini, donne, famiglie giovani, bambini, bianchi, neri di varie tonalità e fisionomie. Un continuo entrare, un continuo sedersi, alzarsi, aspettare in fila. Attesa paziente.

Appena entrati, Ibrahim ed io ci siamo accodati alla fila. Vicino a noi c’era una coppia con un bambino che piangeva: tutti e tre biondi, occhi azzurri, pelle molto chiara, viso largo… Parlavano una lingua sconosciuta. Dai colori e dai lineamenti abbiamo decretato che erano russi. Una volta seduti in sala d’attesa, Ibrahim ha cominciato a dirmi lo Stato di provenienza dei vari africani già presenti e che entravano. Io ero molto interessata a osservare le differenze sotto la sua guida esperta. Facciamo presto, noi, a dire «africani»! Le differenze ci sono ed è bellissimo scrutare i volti. (…) Osservare così le persone è una meraviglia. Davvero l’uomo è di poco inferiore agli angeli…

C’erano molti bambini che frignottavano, l’ambiente era caldo, sovraffollato, mancava l’aria, perciò i bambini s’innervosivano della lunga attesa.

Ma ogni vicino di sedia cercava di distrarre il figlio non suo, di fargli passare il tempo, in una sorta di istintiva solidarietà. Nessuno era infastidito, come spesso succede in altre situazioni… Qui si è tutti sulla stessa barca. E la sensazione che si ha è di essere fuori del mondo, con il tempo che si è fermato, come in una bolla. Del resto, queste persone sono in attesa di essere riconosciute. E questa non è solo una formalità, è un atto importantissimo. Dimostrare di esistere, di essere qualcuno.

Ho goduto di essere in mezzo a quelle persone, lontana dal mondo di chi ha cittadinanza. Sono entrate due giovani donne cinesi, vestite con abiti da cerimonia, fuori moda, certamente inadatti a quel luogo, anche un po’ ridicoli – potrei dire con la cieca presunzione di chi è benestante…

Già, i loro abiti sono i nostri scarti. Quello che noi scartiamo su di loro diventa abito di cui andare fieri. Accorgermene mi ha dato fastidio, disagio. E ho cominciato ad apprezzare quei vestiti scombinati, fuori moda, mal accostati, certamente non eleganti… E ho cominciato ad amare questo stile più di quello ricercato e raffinato della città, del mondo benestante, che ho pur sempre apprezzato. Ora mi sembra privo di vita. Che ci rende servi, sì, che ci ha asservito.

I nostri scarti su di loro stanno benissimo e rivivono, sono vivi, fanno la loro funzione, sono rimessi al posto giusto: servono. E si guarda all’uomo, non all’abito.

Penso che l’uomo vero sia qua, al piano terra della Questura: povero, migrante in cerca di riconoscimento, spogliato di tutto, vestito di scarti, ma volto al futuro, capace di rischiare con la propria famiglia, i figli, il proprio amore.

Mi si è seduta accanto una donna bianca dal volto molto dolce, circondato da un fazzoletto.

È stato istintivo, per me, sorriderle. Abbiamo cominciato a parlare. Parlava molto bene l’italiano. Veniva dal Kosovo. C’erano il marito e una figlia. Ha avuto piacere di raccontarmi la sua vita in Kosovo, della sua famiglia di origine, di come ora anche al suo paese, come qui da noi, si fanno meno figli… Poi ha chiesto di me, se ero sposata, se Ibrahim era mio marito, che lavoro facevo…

C’è tanto bisogno di contatto, di accogliersi e di essere accolti. Davvero basta incrociarsi con gli occhi, sorridersi, per aprirsi. Perché in fondo l’uomo è uguale, proprio in questo luogo di differenze di razza l’ho visto: l’uomo è sempre uguale e l’unica cosa che desidera è essere accolto.

Basta un sorriso. Di questo abbiamo tutti bisogno. E in questo luogo ho visto più sorrisi che in Calmaggiore. Questo luogo di attesa lunga facilita i rapporti, siamo tutti sulla stessa barca. Non c’è fretta. Dallo sportello bisogna passare tutti.

E allo sportello sono andata per chiedere dei tempi di attesa; l’impiegato mi ha risposto gentilmente, ma poi ha aggiunto scuotendo la testa come infastidito: «Adesso vengono tutti con i bambini, che fanno una confusione…». Chissà perché si prova fastidio per le famiglie con i bambini che fanno confusione. Davvero vogliamo un ondo morto? Vogliamo davvero essere avvolti dal silenzio mortale?

A me i bambini che fanno rumore non danno fastidio. In fondo distolgono l’attenzione dai problemi e la incentrano su di loro. E questo è buono, perché in loro c’è il germe della vita.

Dietro di me c’era una donna indiana, con al petto un bambino piccolo, tutto serio, e di fianco la figlioletta più grande, composta. Facevo fatica a staccare gli occhi da loro. Erano davvero molto belli. Con la donna non ho parlato, ma ci siamo guardate molto sorridendoci e si capiva che ci cercavamo con gli occhi, e ogni volta che gli occhi si incrociavano ci sorridevamo come parlandoci. Quanti pensieri comuni dietro lo sguardo e il sorriso. Che meraviglia è l’uomo!

A casa nostra, di cui queste righe sono un estratto, è disponibile all’interno del sito web di EMI Editrice Missionaria Italiana


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