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La cultura ha tradito la propria radice

La cultura è il prodotto di una domanda di senso, ma anche il bisogno, altrettanto vitale, di dissenso rispetto all'ordine delle cose. Durante la pandemia, tanto si è parlato di “cultura” intesa come merce da consumare e da sostenere in un periodo di calo dei consumi, ma nulla si è detto della necessità di produrre un discorso critico all’altezza dei tempi

di Marco Revelli

Un futuro per la cultura è possibile. Ma dobbiamo immaginare – oggi – il domani. Ne abbiamo parlato ieri, nel dibattito organizzato da Vita, in collaborazioe con Casa Testori e con la partnership di Fondazione Cariplo, a conclusione del ciclo "La cultura non si ferma". Pubblichiamo l'intervento di apertura di Marco Revelli e il video dell'intero incontro.

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La cultura è stata sicuramente tra le grandi vittime della pandemia. Lo è stata assieme ai tanti corpi, ai tanti frammenti di relazione e sapere che sono scomparsi, ai tanti operatori della sanità che hanno usato la propria cultura nel tentativo di salvare vite, ma soprattutto assieme ai quei grandi vasi di sapere – sedimentazione ci cultura e di culture – che sono gli anziani. La cultura è stata tra le vittime della pandemia, se non altro perché il necessario, vitale distanziamento inteso come protezione della vita è un fattore di crisi della cultura stessa.

La necessità di salvare il bios, ovvero la vita nella sua forma elementare e basilare, il corpo vivente e la sua dimensione naturale, ha imposto il sacrificio di una risorsa fondamentale dei processi culturali: la comunicazione diretta, la relazione in presenza. Il distanziamento, pur così indispensabile per far sopravvivere soprattutto le componenti più fragili della società, ha colpito duramente questo settore. A quanti è venuta meno la disponibilità delle risorse indispensabili alla vita. Però…. Però non vorrei fare un discorso, per così dire, sindacale a favore degli operatori della cultura. Vorrei fare un discorso sulla natura della cultura e qui, forse, le cose non sono così pacificate o pacificanti. La cultura ha avuto le proprie mancanze e le proprie pecche.

La cultura ha mancato. Certamente, si è fatta sentire per protestare contro un abbandono rispetto al quale i “ristori” sono stati gocce d’acqua in un mare di bisogni. Ma l’altro compito della cultura, che è parlare a quella platea che è l’umanità per ricostruire un filo di senso o di non senso nelle cose che avvengono, non c’è stato. O è stato flebile. Il mondo della cultura non ha elaborato un discorso critico dell’esistente. E per “esistente” intendo il presente, ma anche ciò che ci ha condotti al presente.

“La cultura non coincide con la vita”, scriveva Antonin Artaud. Questa frase ci parla di bisogni materiali, ma per altro verso ci dice che la cultura è sempre il prodotto di un attrito. La cultura è sempre il prodotto di una non consonanza tra lo stato di cose esistente – la vita così come si dà naturalmente – e l’essere umano. In qualche modo, la cultura è il prodotto di una crisi di presenza nell’ordine delle cose. La cultura è il prodotto di una domanda di senso, ma anche il bisogno – altrettanto vitale – di dissenso rispetto a quest’ordine delle cose.

La cultura ha sempre svolto questa funzione persino quando si è messa al servizio dei potenti: liberiamoci da un’immagine idealizzata, la cultura non è sempre ex parte populi. Quante volte si è schierata con il principe di turno? Tuttavia, anche quando si schierava col principe, conteneva elementi di dissonanza. Pensiamo a Seneca e alla forbice che si apre tra quello che scrive e i potenti, con i quali si metteva in una posizione di servizio. Pensiamo a Cicerone, a Socrate… Le radici di ogni processo culturale affondano in questa frizione con l’ordine delle cose.

Non ho sentito, in questi mesi, la cultura denunciare le dissonanze. E ce ne sono tante di dissonanze. Innanzitutto perché il virus non ha prodotto il male sociale che vediamo, lo ha rivelato. Ci ha mostrati a noi stessi per quello che eravamo diventati. “Distanziati socialmente”: i DPCM hanno imposto il distanziamento, ma nel 2017 o nel 2018 non eravamo mentalmente già distanziati rispetto agli altri? Eravamo incapaci di sentire la sofferenza dell’altro come sofferenza nostra. Avevamo già smarrito quell’empatia alla base dell’humanitas e, di conseguenza, della cultura? L’humanitas era già persa. Persa non solo negli orrori del XX secolo – che pubblicamente l’aveva messa al rogo – ma anche nella pratica quotidiana degli anni che ci stanno alle spalle.

Il virus ha rivelato una disumanizzazione spaventosa. Una inumanitas che consiste nel considerare gli altri esseri umani come delle cose. Ad Auschwitz i deportati erano chiamati proprio così: pezzi, cose, materiali inerti. Questo trattare gli altri come cose è il male assoluto che abbiamo ricordato e stiamo ricordando nel Giorno della Memoria. Trattare gli altri come cose è entrato anche nei micro comportamenti quotidiani. Gli anni nei quali abbiamo assistito, attraverso i social, al sacrificio quotidiano dei migranti che affogavano a centinaia nel Mare Nostrum, da parte di spettatori indifferenti o addirittura ostili che cos’erano se non un segno di quanto ci sarebbe accaduto?

Al suo La prima radice, Simone Weil appone un sottotitolo importante: Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano. Weil parla di doveri, non di diritti ed esordisce, nel suo libro, insistendo sulla nozione di “obbligo”. L’oggetto dell’obbligo, scrive Weil, nell’ambito delle faccende umane è sempre l’essere umano in quanto tale. Noi abbiamo un obbligo verso gli altri esseri umani.

Questa è la radice prima della scintilla culturale: l’obbligo che ci lega agli altri e che, guardando un uomo, non fa esclamare “se questo è un uomo”. Tutti devono essere nella condizione di avere riconosciuto ciò che costituisce la dignità dell’uomo. La radice prima è un radicamento, inteso come essere parte di relazioni dalle quali nessuno sia escluso. In fondo, in un mondo della cultura che sembrava più attonito che all’attacco, l’unico messaggio che è venuto in tal senso è stato quello di Papa Francesco. È venuto prima del Covid-19, ma è risuonato forte durante questa pandemia: il nesso che lega tutti con tutti, che lega il tutto. Sentirsi parte di un tutto e, quindi, responsabili di quel tutto è il compito di una cultura che ha mancato il bersaglio per un deficit di consapevolezza dei proprio compiti.

Sono certamente infinite le micro tracce di chi ha lavorato in direzione ostinata e contraria, ma non c’è stata una parola corale e forte. Molte buone pratiche, ma non sono precipitate in un discorso corale e potente. La cultura, in fondo, continua ad essere considerata una “merce” da consumare, qualcuno dice “da sostenere” quando il consumo è inadeguato. Ma prima di consumare qualcosa, bisogna produrla. L’impressione è che il mondo culturale abbia perso questa capacità di elaborare un discorso forte all’altezza dei tempi.


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