Sanità & Ricerca

L’ospedale al centro e fuori il deserto. Diagnosi di un sistema da curare

Nei territori mancano medici, infermieri, reti organizzate e leggere di presidi sociali e sanitari. I miliardi del Next Generation Eu possono essere una grande occasione. Ma bisogna cambiare modello di riferimento. L'analisi sul sistema sanitario italiano nel numero del magazine di febbraio

di Marco Dotti

Al di là delle differenze regionali, il nostro è un Paese interamente, integralmente ospedalecentrico. Tutto ciò che è fuori dall’ospedale viene considerato “altro” rispetto al complesso, articolato mondo della cura. C’è, in alcuni casi si vede, ma è letto come un’appendice informale del sistema di sanità e salute. In questo “altro”, però, ci sono tantissime cose. Ci sono persone, relazioni, corpi intermedi, famiglie. Un mondo di bisogni e fragilità. E ci sono esperienze e risposte, molte risposte a quei bisogni e a quelle fragilità. Su tutte: l’assistenza domiciliare integrata. Un asset fondamentale per un Paese che ha una longevità crescente, ma continua a non investire adeguatamente in questo settore. Mancano medici, mancano infermieri, la formazione va a rilento, i Pronto Soccorso sono congestionati e tante, troppe promesse sono state disattese. È una contraddizione ed è un paradosso per una realtà con una società civile organizzata che, anche in tempo di pandemia, ha mostrato una vivacità senza pari. Ma, soprattutto, è un paradigma da rovesciare e un modello di sanità territoriale interamente da riscrivere. Imparando la lezione, rafforzando i punti deboli e riorganizzando quelli forti. Facendo leva come soggetto attivo sul Terzo settore: realtà più prossima alle persone, ai loro bisogni e al territorio.

Dalla sanità di risposta alla sanità di proposta
Edoardo Barabarossa, presidente di Fondazione Èbbene, fotografa con chiarezza questa situazione. L’epidemia che, esattamente un anno fa, ci colpiva ha mostrato come dinanzi ai cosiddetti novel risks, inediti e senza precedenti, i sistemi troppo formali collassano. Il nostro sistema, spiega Barbarossa, con soggetti pubblici troppo verticali (le Regioni) e con una sanità di risposta, anziché di proposta «non ha retto perché troppo istituzionalizzato da un lato e troppo strutturato dall’altro». Il bisogno di una nuova sanità di prossimità e di territorio deve confrontarsi, prima di tutto, con questo dato di realtà. Concorda con questa lettura anche il presidente del Comitato tecnico scientifico di Anffas, Michele Imperiali. La pandemia, racconta a Vita, è servita «a far emergere nella sua drammaticità un problema conosciuto da decenni con una prima aggravante: da molto tempo si conoscevano anche le soluzioni» meno formali, forse, ma proprio per questo più dinamiche. Seconda aggravante, aggiunge Imperiali, è che proprio mentre il sistema ospedalecentrico mostrava le proprie falle «il messaggio “il Covid si cura in ospedale” è passato nell’immaginario collettivo inculcato da molti esperti chiamati a formare i vari Comitati tecnici scientifici». Mentre i cittadini trovavano risposte sul territorio, grazie alle strutture di base e associative, l’immaginario sociale veniva orientato ancora una volta su un paradigma ospedalecentrico.

Al centro va messa la persona, non il paziente
Il sistema si deve aprire, diffondere, ri-orientarsi fuori dalle strutture sanitarie, calibrarsi sulla “persona” e non sul “paziente”. L’errore, spiega ancora Barbarossa, «è stato credere che si potesse affidare la cura, in senso ampio, e la salute delle persone unicamente al sistema (comparto) sanitario che tradizionalmente ha strutture e funzioni che dialogano solo tra loro», incapaci di adattarsi con rapidità alle anomalie e ai rischi inediti. Conseguenza di questa rigidità? Una mancanza di dialogo tra soggetti, pubblici e del privato sociale, presenti sul territorio. Risposte scoordinate, differenze territoriali, incapacità di fare sistema. E una grande energia sociale che rischia di essere dissipata. Eppure, «il Terzo settore, visto dal pubblico, è una risorsa e lo sarà sempre più in futuro. Ma il pubblico stenta ad at tivarla: è un gap che comporta molte conseguenze», spiega Gianpietro Briola, presidente dell’Avis e responsabile del Pronto Soccorso dell’ospedale di Manerbio (Bs): «In molti territori, il Pronto Soccorso è diventato la prima frontiera per chi non trova sostegno altrove. Purtroppo, quello che viene chiesto da gran parte degli accessi è un sostegno sociale, non sanitario». Serve una risposta multipla, prima dell’approdo in emergenza. Una risposta, conclude Briola, «al tempo stesso sociale, sanitaria, assistenziale, relazionale che solo il Terzo settore organizzato può dare, aiutando a “decomprimere” gli ospedali, animando il territorio di servizi e riposte». Al contrario, là dove il sistema ha mostrato resilienza e capacità di risposta è stato proprio dove ha saputo allearsi con le soggettività del Terzo settore che operano sul territorio. Il loro grado di flessibilità e la loro tenuta valoriale hanno mostrato un esempio di risposta multipla a una problematica inedita e complessa. Se c’è una lezione da trarre da tutto questo, spiega Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva è che «le dimensioni di cura e salute, di sanità e benessere sociale, devono andare di pari passo. Devono trovare una valorizzazione, in una medicina di territorio che tenga assieme aspetti sociali e sanitari facendo perno sulla persona e sui suoi diritti di cittadino». Non bisogna parlare solo di ospedale, bisogna vedere il complesso della persona: il suo viaggio dall’inizio al termine della malattia. Eppure, nota Alberto Battaglia, presidente Aism, oltre che professore di Igiene e Sanità pubblica all’università di Siena, in molte Regioni si fa ancora troppa fatica a dire che la cura non è solo ospedale, ma territorio: «A volte le realtà ci sono, ma mancano le reti di connessione. La medicina di territorio, più che creare nuove strutture, dovrebbe creare queste reti per rendere le strutture già esistenti più vicine alle persone. Ma chi può interconnettere strutture e persone, se non il tessuto associativo?».

Risorse senza progetto per 14 milioni di malati cronici
Nell’ultima versione del Recovery fund gli investimenti per la missione Salute ammontano a 18 miliardi di euro a cui si aggiungono risorse React Ue per 1,71 miliardi, per complessivi 19,72 miliardi. All’assistenza di prossimità e alle telemedicina sono assegnati 7,9 miliardi. Ma, osserva ancora Gaudioso , «si parla troppo di risorse e poco di progetto. Eppure proprio sul progetto dovremmo insistere, anche per renderle strutturali. Il rischio è che si cada nella logica dei finanziamenti contingenti e emergenziali». Parliamo di infermieri di comunità, ma mancano infermieri. Parliamo di medici di base, ma mancano i medici. Mentre non facciamo formazione, stiamo assistendo a un esodo di personale specializzato dal privato sociale al pubblico. Parliamo di medicina di territorio, ma lasciamo sguarnito il territorio, in particolare nel campo dell’assistenza domiciliare. Parliamo di digitalizzazione ma la telemedicina non è nemmeno stata inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza. Giuseppe Milanese, presidente di Confcooperative Sanità, che raccoglie 407mila operatori che, a diverso titolo, lavorano nelle cooperative sociali e socio sanitarie, ricorda come «nella prima ondata proprio la cooperazione sociale ha ideato i Covid-Hotel, strutture che hanno contributo a decongestionare il sistema sanitario». Una pratica di innovazione che si è affiancata al classico ruolo di sussidiarietà attiva. Ma, oggi, proprio la cooperazione sociale è in difficoltà: con la campagna massiccia di assunzioni di personale sanitario, lo Stato ha dimenticato proprio la sussidiarietà e l’articolo 118». Anche qui, è un problema di visione. «Siamo cellule che si muovono in modo browniano, senza logica di sistema», prosegue Milanese. Per costituire un nuovo paradigma, aggiunge, «serve un coordinamento indirizzato a quell’assistenza primaria che, dal 1978, l’Oms sostiene essere necessaria per risolvere il problema della cronicità che, oggi, riguarda oltre 14 milioni di persone». Se la cronicità continuasse ad essere trattata in ospedale, conclude Milanese, «continuerebbe ad essere trattata male. Gli ospedali sono strutture per l’acuzie, non per la cronicità». Altro paradosso. Proprio per rispondere a questa sfida va implementato il modello territoriale, ma servono finanziamenti adeguati: l’attuale miliardo assegnato per la domiciliare non basta, ne servono almeno sei per allinearsi ai livelli europei di assistenza e cura. Come risolvere però la carenza di personale infermieristico? Per il presidente di Confcooperative Sanità «facendo leva su una figura professionale intermedia che esiste già nel nostro ordinamento: l’Osss, l’operatore socio sanitario specializzato, che supporti gli infermieri nell’assistenza domiciliare».

Un modello territoriale oltre la dicotomia pubblico-privato
Don Vincenzo Barbante, presidente della Fondazione Don Gnocchi, ci spiega però che la medicina territoriale è parte di un tema più ampio: l’accompagnamento della fragilità…


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Nel numero in distribuzione, dedicato alla sanità territoriale, troverete i contributi di Mario Melazzini, amministratore delegato Ics Maugeri; Fabrizio Pregliasco, presidente nazionale di Anpas; Alberto Fontana presidente di Fondazione Serena e Fondazione Aurora; Mario Alberto Battaglia, presidente della Fondazione Italiana Sclerosi Multipla e direttore generale Aism; Benedetto Saraceno, ordinario di Global Health alla università di Lisbona; Francesca Baglio, neurologa ricercatrice all’Irccs S. Maria Nascente di Milano della Fondazione don Gnocchi; Stefania Bastianello, presidente nazionale Fcp; Luca Moroni, coordinatore Fcp-Lombardia; Cristiano Gori, docente di politica sociale all’università di Trento; Paolo Pigni, direttore generale della Fondazione Sacra Famiglia; Marco Bollani, responsabile progetto L-inc di Anffas Lombardi; Angelo Moretti, presidente della Rete di economia civile “Consorzio Sale della Terra”; Giuseppe Costa, professore di Igiene all’Università di Torino e 18 progetti territoriali pensati e sviluppati in un’ottica di prossimità che sono vere e proprie best practice


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