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Politica & Istituzioni

La natura fondativa del Terzo pilastro

Le missioni del prossimo piano italiano, più che assumere meri impegni in termini di allocazione, dovrebbero convincersi che il valore del Terzo settore (beni, relazioni, servizi, economie e cultura) crea impatto e si amplifica nell’intersezione fra le filiere della nostra economia

di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai

Il Piano Nazionale di ripresa e resilienza assume, giustamente, una rilevanza crescente non solo nella sfera politico burocratica e dei corpi intermedi ma sempre più nel discorso pubblico. Un processo che si rende evidente anche guardando al modo in cui il documento viene variamente denominato: Recovery plan, next generation, Pnrr, ad indicare un progressivo trattamento del dispositivo tecnico da parte dell’opinione pubblica che se ne costruisce una propria rappresentazione riordinandone contenuti e priorità.

Il modo più semplice per approcciare il piano, anche solo per farsene un’idea, si potrebbe chiamare “conteggio delle ricorrenze”, ovvero ricerca e pesatura nelle premesse e nelle proposte, dei riferimenti a particolari soggetti, ambiti di attività, contesti territoriali e, su questa base, costruzione di un sistema di valutazione ed eventualmente di contro proposta. Una modalità classica, da rappresentanza di interessi che però è forse riduttiva sia per la fase che stiamo vivendo sia per l’impostazione di fondo del documento.

Il piano infatti è di missione non di settore e quindi la lettura più coerente consiste nel soppesare la consistenza degli obiettivi soprattutto in un’ottica di risultato e su questa base definire o ridefinire la strategia. Nelle politiche mission-oriented infatti quello che conta sono l’intenzionalità e chiarezza della sfida da affrontare e il modo in cui si riescono a catalizzare e possibilmente ad articolare obiettivi e missioni di altri attori che con-corrono alla sua realizzazione. Non è un dettaglio da policy analyst, ma una differenza cruciale che, non a caso, richiede a piani come questi di dotarsi di una valutazione che non può che essere d’impatto.

Per il Terzo settore la questione è particolarmente controversa perché viene citato in modo esplicito tra i beneficiari delle misure. E’ forte quindi la tentazione di utilizzare questo appiglio per rafforzare la presenza del settore e, a cascata, la dotazione di risorse. Però forse questa è una scorciatoia tattica che, come si diceva, non appare in linea né con l’impostazione politica del piano né all’altezza delle sfide che vuole affrontare. Non da ultimo pare poco coerente anche con il Terzo settore stesso che appare, ora anche in senso normativo, come un aggregato molto diversificato al suo interno ma con un collante rappresentato proprio dalla missione.

Occorre quindi uscire dalle “distopie” prodotte da una visione settoriale del non profit e rilanciare proposte che esemplificano il valore peculiare di quello che è innanzitutto un “pilastro” (il terzo appunto) dello sviluppo e soprattutto della resilienza. La questione non è solo semantica o di forma, bensì di sostanza. Per il Terzo settore rilanciare la propria identità in qualità di “terzo pilastro”, è un modo per potenziare la valenza fondativa (non accessoria, non riparatoria) dentro un piano storico e irripetibile, pensato per immaginare e progettare il “dopo”. L’architettura ci insegna però che un pilastro oltre ad essere solido, deve anche essere in equilibrio con il resto dell’edificio, deve cioè essere armonicamente inserito in una costruzione fatta di “altri pilastri”, misurandosi così in maniera sistemica con attori e funzioni diverse da sé.

Nello stesso modo potremmo dire che le missioni del prossimo piano italiano, più che assumere meri impegni in termini di allocazione, dovrebbero convincersi che il valore del terzo settore (beni, relazioni, servizi, economie e cultura) crea impatto e si amplifica nell’intersezione. Le missioni producono soluzioni a impatto sociale quando declinano e includono la diversità di istituzioni orientate all’interesse generale nella produzione del valore e non perché assumono i principi in premessa, né tantomeno se ne richiedono la gestione di una quota percentuale.

Meglio quindi non limitarsi a essere citati in una delle tante componenti di una delle svariate missioni, anche per evitare il rischio di allestire una “comfort zone” dove le risorse del piano non riuscirebbero probabilmente a fare la differenza come invece intendono fare finendo per essere “spalmate” su attività correnti.

Bisognerebbe provare a misurarsi sugli obiettivi di trasformazione delle diverse policy. Su tutte, anche quelle più distanti facendosi spingere dall'abbrivio delle missioni. Un esempio su tutti: il digitale è ormai maturo per una proposta di costruzione e di gestione equa e sostenibile delle sue risorse ma per ora una value propositon di alto livello non è ancora stata formulata dal Terzo settore. Il digitale è la piattaforma su cui far transitare i cambiamenti ma non coincide con il “cambiamento desiderato” e né tantomeno con il suo valore. Sappiamo bene infatti che gran parte delle distorsioni e disuguaglianze presenti nella nostra società si concentrano sul digitale, in particolare su come questo crea e distribuisce il valore. Un tema centrale su cui occorre passare dalle parole ai fatti, un tema che richiede un’assunzione di responsabilità visibile in investimenti. Un tema su cui la cooperazione e il Terzo settore sono chiamati ad avanzare proposte radicali, capaci di aumentare la biodiversità delle soluzioni in campo. Chi più del Terzo settore e del mutualismo può essere interessato ad una economia che non separi la produzione dalla redistribuzione del valore e che non generi trade off fra valore pubblico e valore privato, crescita e democrazia? L’intersezione fra le filiere della nostra economia e il “terzo pilastro” può diventate un grande cantiere per creare, attraverso un diverso valore d’uso del digitale, un impatto positivo in termini di equità e sostenibilità.

Ma c’è un ulteriore motivo per cui transitare dalla missione potrebbe essere utile ed efficace. Se infatti il piano funzionerà nella misura in cui diventerà una missione di missioni, ovvero saprà attrarre apporti anche in termini di motivazioni e non solo di competenze e risorse da parte di diverse soggettività, allora potrà anche contribuire a un sano esercizio di realismo nei confronti degli obiettivi attesi. Può sembrare un paradosso ma non è così. Le missioni, parafrasando il titolo di un fortunato libro di Rutger Bregman, sono per realisti e le organizzazioni di Terzo settore lo sanno bene, forse meglio di altri. Per questi soggetti infatti la missione è legata alla capacità di tracciare in maniera chiara una linea dell’orizzonte fatta di bisogni e di risorse che in maniera inattesa, come spesso accade nei processi generativi, possono moltiplicarsi. Un insegnamento utile soprattutto se il Terzo settore potrà e vorrà giocare un ruolo non appena come beneficiario o riserva di capitale umano per ruoli governativi, ma come intermediario e co-investitore di un piano realmente trasformativo.


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