Welfare & Lavoro

Il ritornello stanco del ministero per le disabilità

Il leader della Lega Matteo Salvini torna alla carica con un suo vecchio refrain. Ma sentiamo davvero la necessità di un ministero per le disabilità? Forse no, anche se è una idea premiata dal marketing politico non solo leghista. Forse ci manca la trasversalità, non le stanze dedicate, non norme speciali, non solo i capitoli di spesa, ma una spesa attenta alla disabilità

di Carlo Giacobini

Seguiamo con passione e attenzione i passaggi istituzionali per la formazione del nuovo Governo, ascoltando anche le dichiarazioni dei diversi attori politici. Fra queste non poteva sfuggire quella di Salvini che rilancia l’istanza del ministero per le disabilità. È un refrain per lui, refrain che raccoglie consensi e lo sa. L’aveva proposto in campagna elettorale e poi rilanciato durante la costruzione del primo Governo Conte, quando Lega e 5 Stelle guidavano assieme il Paese e lo difendevano dai barconi. Poi il ministero per le disabilità, divenne il ministero della famiglia e delle disabilità (rimanendo comunque senza portafoglio) e Salvini vi piazzo un fedelissimo Lorenzo Fontana che, promosso a migliore ruolo, fu sostituito da un’altra fedelissima Alessandra Locatelli. Rimase in carica per due mesi fino a crollo del Conte I.

Fontana si tenne per la “famiglia” e la “disabilità” fu destinata, con deleghe piuttosto incerte, a Vincenzo Zoccano in quota 5 Stelle. Fra i due i rapporti non erano dei migliori, per usare un eufemismo, tant’è che riuscirono a redigere ben due diverse bozze di legge delega per un futuribile Codice della disabilità. Conte scelse quella a marchio Lega, ma – com’era prevedibile – fu rigettata dalla Ragioneria dello Stato per evidente insostenibilità tecnica, contabile, lessicale.

Nel Conte II il ministero è scomparso. Non si è trovato nemmeno lo straccio di un sottosegretariato perché nella cencelliana divisione delle poltrone si era arrivati al numero massimo previsto per legge di ministri e sottosegretari. Il professor Conte mellifluo propose la sua narrativa: “la disabiltà è troppo importante! Mi tengo io la delega”. E conchiuse preannunciando (per la ottava volta) che avrebbe approvato il Codice sulla disabilità.

Ma ne sentiamo davvero la necessità di un ministero per le disabilità? Forse no, anche se è una idea premiata dal marketing politico non solo leghista. Forse ci manca la trasversalità, non le stanze dedicate, non norme speciali, non solo i capitoli di spesa, ma una spesa attenta alla disabilità.

Siamo freschi di lettura del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non sappiamo ancora quale sarà il destino della bozza che stiamo compulsando, quanto verrà modificata nelle previsioni e nei numeri. In realtà in queste ore non sappiamo nemmeno quale sarà il destino degli estensori – il Governo – del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, documento che anzi è stato in parte il casus belli di uno scontro politico e, forse, di una resa dei conti. Comunque vada il Piano dovrebbe regolare l’impiego di una valanga di miliardi – 220 pare, ma c’è chi dice meno – e che ambirebbe a incidere sulle prospettive di sviluppo e di cambiamento del Paese, siamo, come tutti, tanto incuriositi quanto cauti. Anche perché c’è una questione di credibilità, che poi vediamo, non solo di questo o quel Governo, ma più in generale del sistema a cui afferiscono tanti attori.

Per deformazione professionale, l’occhio corre alla ricerca di quanto vi sia di espresso intorno ai temi della disabilità, della non autosufficienza, ma anche degli anziani, delle famiglie in cui vi siano differenti forme di disagio. E, dopo aver rilevato le ricorrenze semantiche, l’analisi sale di livello per comprendere le lacune.

Qualcuno, anche su Vita, ha espresso condivisibili riserve sulle quote finanziarie effettivamente ed espressamente destinate alla disabilità, lanciando un – meno condivisibile – appello a fissare una sorta di percentuale di garanzia.

Personalmente non ritengo sia questo il focus. Credo che la grande assente nel disegno strategico sia la trasversalità della disabilità. Essa dovrebbe permeare ciascuna missione perchè l’esclusione riguarda tutti gli ambiti della vita, della società, della quotidianità. Ci si sarebbe aspettati, quando si lancia la sfida contro le disparità di genere, un accenno alla discriminazione plurima che vivono le donne con disabilità. E ancora, un segnale, un impegno per cambiare le prospettive di tante donne caregiver. Ci si sarebbe attesi un segnale volto all’accessibilità, alla fruibilità, alla godibilità per tutti di quella “bellezza”, patrimonio del Paese celebrata come bene e indicata quale leva di sviluppo.

Aspettative simili c’erano rispetto alle nuove generazioni. Il tema del progetto di vita adulto, con le esperienze e le opportunità che sono funzionali, non si esaurisce nella creazione di strutture o solo nella volontà di garantire strutture e infrastrutture per soluzioni abitative alternative alla famiglia di origine. Quei progetti di vita adulta non possono essere limitati alla garanzia di un tetto sulla testa e di un assistente personale. C’è anche – tanto per dire – il lavoro. E su questo la lacuna del Piano è inquietante: sull’inclusione lavorativa e sulle relative politiche che possano davvero segnare la svolta per l’occupazione delle nuove generazioni e non solo non c’è nulla di significativo.

Ma tentando un esercizio controfattuale, immaginiamo come avremmo reagito nel caso nel Piano invece vi fossero state quelle indicazioni.

  • Diffidenza, e non può essere altrimenti: sono 5 anni che attendiamo “Linee guida in materia di collocamento mirato delle persone con disabilità”, previste dal decreto legislativo n. 151 del 2015 e di cui si sono perse le tracce.
  • Diffidenza, e non può essere altrimenti: sono trascorsi circa 1150 giorni dall’adozione, con decreto del Presidente della Repubblica del 12 ottobre 2017, del secondo programma di azione biennale per la disabilità.
  • 8 le linee di intervento previste, 47 azioni generali, 205 azioni specifiche. Un programma costato due anni di elaborazione, con indicazioni precise e concrete di cui nessuno ha assunto la regia, lasciano allo sbando tanto che pressoché nulla è stato ancora realizzato. Un Programma di cui nel il Ministero per le disabilità a trazione leghista, né la gestione solipsistica di Conte, hanno considerato nemmeno di striscio.

E non ci sorprende nemmeno che il Piano non riprenda nemmeno un rigo del Programma di azione.

Ma allora, secondo voi, quando ci si riferisce alla disabilità, alla salute mentale, alla non autosufficienza, quale mai può essere la fiducia degli strumenti di programmazione istituzionale? Quale mai la credibilità residua di chi li propone?
E in tutto questo una Ministero delle disabilità appare ancora credibile?


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