Welfare & Lavoro

Scuola, dal digitale per forza al digitale “per scelta”

Paolo Landri, primo ricercatore del Cnr, spiega che serve una scelta consapevole degli strumenti tecnologici più adatti alle esigenze pedagogiche, senza per forza accettare le piattaforme più comuni sul mercato, create per gli ambiti professionali e non per le scuole

di Redazione

La pandemia ha costretto tutti i Paesi, inclusa l’Italia, a ripensare l’approccio tecnologico all’istruzione. «Il digitale è stata l’unica via per mantenere aperta la scuola», spiega Paolo Landri, primo ricercatore del Cnr. Il passaggio però non è stato indolore: la digitalizzazione forzata del sistema di apprendimento ha causato alcune difficoltà sia agli studenti, e di converso anche alle loro famiglie, sia agli insegnanti.

Lo illustrano bene i dati delle ricerche Istat e Censis. Durante il lockdown della scorsa primavera, il 45,4% degli studenti ha avuto difficoltà nella didattica a distanza (meglio nota con l’acronimo Dad) e il 12% dei bambini non ha avuto accesso a un pc o a un tablet. Un dato che sale al 20% se guardiamo soltanto al Sud. Inoltre, il rapporto “Italia sotto sforzo. Diario della transizione 2020. L’Italia e i suoi esclusi” evidenzia come solo l’11% delle scuole abbia coinvolto tutti i ragazzi nella didattica a distanza e appena l’1% degli istituti non abbia dovuto fornire mezzi per seguire le lezioni da casa.

A questi dati va infine aggiunto che l’82% dei dirigenti scolastici ha evidenziato come le differenze di conoscenze tecnologiche e di possibilità sia tra gli studenti sia tra i docenti abbia creato non pochi problemi alla Dad. Secondo il 75% dei presidi, la scuola a distanza rischia infatti di ampliare ancora di più il gap di apprendimento tra i ragazzi.

«Una realtà dei fatti da cui bisogna ripartire», evidenzia Landri. «C’è stato un grande sforzo da parte di tutti all’interno del mondo scolastico per mantenere vivo uno spazio vitale della nostra società». Gli sforzi hanno pagato, ma fino a un certo punto. «È chiaro che l’Italia ha accumulato notevoli ritardi in campo digitale negli ultimi anni e presenti ancora oggi disuguaglianze che rendono difficile la didattica a distanza. La presenza o meno della banda larga e la possibilità di accedere a Internet da più di un dispositivo sono solo alcuni dei problemi. Pensate a come può essere difficile per un ragazzo seguire le lezioni sullo smartphone per 6 ore». Il ritardo italiano in questo settore è noto da tempo: l’edizione 2020 del rapporto europeo Desi ha evidenziato come l’Italia sia all’ultimo posto in Europa in materia di competenze digitali e al venticinquesimo in tema di digitalizzazione dell’economia e della società. Peggio di noi solo Grecia, Romania e Bulgaria.

È necessario evitare che il digitale venga rigettato in maniera tout court: serve criticizzarlo, usandolo in maniera consapevole

Paolo Landri, primo ricercatore del Cnr

Un passaggio così forzato alla digitalizzazione rischia di provocare effetti nefasti sul sistema educativo italiano: basti pensare a cosa può voler dire usare queste piattaforme per gli alunni delle scuole primarie che stanno imparando a scrivere. «C’è il rischio che il digitale aumenti l’esclusione sociale, che è già presente in maniera molto alta nella scuola pre-Covid», dice Landri.

Lo raccontano bene i dati sulla dispersione: nel 40% delle scuole il tasso era già superiore al 5% con punte del 20% al Sud. È molto probabile che ora il dato vada ritoccato verso l’alto. Per questo è necessario evitare che «il digitale venga rigettato in maniera tout court: serve criticizzarlo, usandolo in maniera consapevole».

Oggi le piattaforme più utilizzate in campo educativo sono quelle per le videoconferenze, come Zoom, Skype e Microsoft Teams. «Questi sistemi non sono adatti all’istruzione, sono pensati più per l’ufficio. Sono stati piegati per i fini educativi e solo adesso si sta cominciando a immaginarli in maniera diversa», spiega il ricercatore…


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