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Sostenibilità sociale e ambientale

“Sostenibilità”, una parola davvero noiosa

È una sorta di cloud o concetto nuvola che tutto promette, già cavalcata dai cherubini del greenwashing, la pubblicità “illuminata”. Più la nuvola s’ingrossa e investe ogni cosa, più tutti noi brancoliamo nella nebbiosità di un concetto sempre più vago, spesso al limite del truffaldino

di Anna Detheridge

"Sostenibilità” è una parola che comincia ad annoiare. È una sorta di cloud o concetto nuvola che tutto promette, già cavalcata dai cherubini del greenwashing, la pubblicità “illuminata”. Più la nuvola s’ingrossa e investe ogni cosa, più tutti noi brancoliamo nella nebbiosità di un concetto sempre più vago, spesso al limite del truffaldino. Se in epoca precovid gli uffici marketing promuovevano l’esclusività, il glamour, oggi nel mondo trasformato dal Coronavirus si tende a voler apparire “virtuosi”, più buoni e generosi. Ecco dunque che il messaggio si fa moraleggiante. Le aziende ci vendono l’illusione della nostra buona volontà, la maglietta costosissima in cotone organico oppure l’auto elettrica, permettendoci di continuare a consumare senza sensi di colpa. Ma le conseguenze finali di tanti e tali messaggi impliciti sono che tutto dipende dalle scelte virtuose del consumatore, mentre per il resto siamo al business as usual.

Ma è proprio così? Una serie di segnali inequivocabili, non ultimo il Covid-19, ci avverte che la salute dei sistemi naturali, gli squilibri crescenti rendono la nostra esistenza sulla Terra molto più precaria. E soprattutto che la nostra sopravvivenza non è più compatibile con le conseguenze delle nostre attività estrattive, di sfruttamento delle risorse naturali e di capacità di avvelenare la vita degli oceani e la stessa aria che respiriamo. Ormai a livello globale il cambiamento climatico porta devastazione nell’agricoltura, squilibri e conflitti per i confini, per l’acqua, per i territori. Molti Paesi africani, come il Mali assetati di acqua sono oggi terra di conquista del jihadismo e del banditismo; la vita stabile delle popolazioni è sconvolta e secondo i dati delle Nazioni Unite i rifugiati nel mondo sono quasi 80 milioni di persone. L’inquinamento favorisce molte malattie quali l’asma, e secondo alcune pubblicazioni recenti anche la virulenza del Coronavirus.
Ma anche queste constatazioni terrificanti non bastano, qualcosa ci sfugge, non riusciamo a mettere a fuoco il nostro posizionamento, esattamente dove ci troviamo, quale parte ci tocca in questa situazione sempre più terrorizzante. Persino i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite declinati come “buone risoluzioni”, ma essenzialmente separati, appaiono deboli, quasi irraggiungibili senza un inquadramento, un pensiero o meglio una visione culturale che li unisca, trasformativa e catalizzatrice di senso. Forse non basta essere soltanto buoni e bravi consumatori, forse bisognerebbe tornare ad essere cittadini?

Tanto per cominciare servirebbe un semplice glossario per definire i diversi ambiti della sostenibilità, quella ambientale che guarda alle fonti dell’energia, le risorse rinnovabili; quella etica, (il vero prezzo di una maglietta di cotone, i salari delle maestranze locali che fabbricano i nostri abiti nel sud est asiatico); quella aziendale quale organizzazione interna, pratiche quotidiane all’insegna del risparmio della carta, piuttosto che delle bottiglie di plastica, il risparmio energetico; e l’ambito individuale delle abitudini collaudate nel tempo quali consumatori, le piccole dimenticanze che su scala mondiale riempiono gli oceani di detriti che verranno smaltiti in centinaia di anni.


Ciò che manca al tema della sostenibilità è una visione culturale necessariamente interdisciplinare, che alla base abbia la consapevolezza dell’interconnessione di tutte le cose e dunque delle conseguenze trasversali e imprevedibili delle nostre azioni. Per mettere fine alla povertà nel mondo sarà necessario evitare di desertificare quelle stesse aree, riequilibrare le retribuzioni dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici proprio in quelle zone più povere; non ci sarà pace senza giustizia, né giustizia senza rispetto per tutte le forme di vita negli oceani e sulla terra, la biodiversità ecc. ecc.
Come fare per cambiare paradigma? Questo computo della ricchezza rappresenta un’enorme semplificazione ed è l’opinione di molti esperti ed economisti, che porta ad una gravissima cecità da un lato verso la bellezza e la complessità del mondo naturale al quale apparteniamo, e dall’altro verso l’impatto ecologico, fino all’esclusione di ogni dibattito sensato sul nostro futuro collettivo. Cambiare visione richiede idee nuove per rendere visibile il nostro stato attuale, e allo stesso tempo offrire delle soluzioni concrete. Queste alternative esistono, l’importante è che vengano discusse e rese visibili ad un’opinione pubblica adeguatamente informata. Per esempio, all’Ocse è stato presentato già nel 2009, all’indomani della crisi del 2008 un rapporto: Report of the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress di Joseph E. Stiglitz, cattedra della Columbia University, Amartya Sen, premio Nobel per l’economia e consulente alla Harvard University, e Jean-Paul Fitoussi, esimio economista francese dell’Institut d’Études Politiques di Parigi. Il rapporto è diventato un libro nel 2018. In questo rapporto i tre grandi economisti contestano il nostro modo attuale di misurare la ricchezza ponendo con forza alcune domande fondamentali: chi sta beneficiando della crescita registrata dal Pil? Questa crescita è sostenibile a livello ambientale? Cosa pensano le persone riguardo le loro vite? Quali sono veramente i fattori che contribuiscono al successo di un individuo e/o di un Paese?

Un’altra economista, donna, ha scritto un libro che apre orizzonti nuovi: è Marianna Mazzucato studiosa di origine italiana che vive in Gran Bretagna. Si chiama The Value of Everything. Il libro restituisce valore dopo anni di sfrenato liberismo a tutto ciò che mette a disposizione lo Stato (come la formazione e la sanità pubblica) nel disinteresse generale e che rende possibile lo sviluppo e la competitività del settore privato. Il Covid in questo è stato illuminante, un bel risveglio che dà forza alle tesi della Mazzucato.
La Commissione europea sta attualmente implementando nel vecchio continente una politica innovativa estremamente importante, il Green New Deal che punta tutto sulle risorse rinnovabili con l’obiettivo di abbandonare nel giro di dieci anni il carbon fossile. Uno dei pensatori più interessanti in questo momento, ispiratore delle politiche Green dell’Unione europea è il teorico dell’economia Jeremy Rifkin. Il suo libro Un Green New Deal globale è stato tradotto anche in italiano da Mondadori. La tesi di Rifkin, in grande sintesi, è che nel giro di meno di dieci anni (entro il 2028) le fonti non rinnovabili di energia derivante da carbone, gas e petrolio (carbon fossile) diventeranno degli stranded assets ossia letteralmente “beni incagliati”, investimenti non recuperabili. Miliardi di dollari investiti in queste attività di estrazione rimarrebbero inutilizzati creando una “bolla del carbonio”. Se si vuole mantenere le temperature globali sotto l’aumento del 2%, il Green New Deal deve essere una prospettiva condivisa da molti investitori e attori della finanza globale, compresi i potentissimi fondi pensione dei lavoratori di tutto il mondo.


Ma quali sono le caratteristiche della Terza Rivoluzione Industriale secondo Rifkin? La Terza Rivoluzione Industriale svilupperà una nuova infrastruttura digitale smart che connetterà i continenti a cominciare dall’Europa e dall’Asia dove la Rivoluzione è già in atto. Si potrebbe avere tra pochi anni un’energia distribuita e non centralizzata, fatta di pannelli solari, di fonti locali e sfruttabili secondo la necessità. Le energie rinnovabili funzionano per reti aperte e trasparenti, non c’è controllo centralizzato, sono scalabili lateralmente, per ottimizzare efficienze aggregate e circolarità. Ognuno di noi con pannelli solari e accumulatori di energia potrà diventare in teoria autosufficiente. Le piattaforme favoriscono flessibilità e ridondanza, due elementi chiave per stabilire resilienze regionali. Tutto questo detto in estrema sintesi è uno scenario che, se viene compreso, potrà davvero funzionare da catalizzatore di energie virtuose per raggiungere una nuova civiltà ecologica.
Tale obiettivo richiederà resilienza, ma diventa realizzabile nel momento in cui questo orizzonte comincia a restituire speranza e nuova energia. Richiederà molta responsabilità collettiva che dovrà poter muovere capitali pubblici, capitale sociale a ogni livello di governance, e dovrà impegnare la partecipazione e l’impegno profondo dell’intero mondo politico. Con i fondi della New Generation Eu questo scenario comincia a delinearsi. Sarebbe importante favorire una conoscenza di base e spiegare meglio e con più forza il senso profondo di questa scommessa sul nostro comune futuro.


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