Welfare & Lavoro

L’immigrazione non è più un problema. Ed è questo il problema

Il silenzio calato sul tema immigrazione, lungi dall’essere strumento di buon governo dei problemi, si è rivelato semplicemente assenza: di discussione, ma anche di analisi e soluzioni. Nel suo primo discorso al Senato, il neo Presidente del Consiglio ha fatto solo due brevissimi accenni. Non possiamo, però, aspettare i tempi e le paure della politica. Dobbiamo ricominciare a discutere di temi e di proposte. Anche, di nuovo, accanitamente

di Marco Ehlardo

Sono stati anni duri per chi si occupa di migrazioni in Italia. Il tema è stato al centro di un dibattito costante, più volte feroce, e presentato sempre come il problema dei problemi. Si è spaziato tra presunte invasioni, associazioni al tema della sicurezza, lo spreco di risorse pubbliche, ed altre amenità del genere. L’acme si è raggiunto durante l’esperienza del primo governo Conte: qualsiasi accadimento, fosse pure l’eruzione dell’Etna, diventava un problema dovuto all’immigrazione.

Logico che, finita quell’esperienza, il successivo governo abbia fatto di tutto per spegnere i riflettori sul tema, per levare avrebbe potuto avere questo senso: superare l’approccio ideologico e da continua campagna elettorale, per tornare ad affrontare il fenomeno in maniera razionale e ragionevole, e per risolvere alcune questioni aperte da tempo. Lavorare, dunque, sotto traccia, ma per trovare soluzioni. Invece, il silenzio calato sul tema immigrazione, lungi dall’essere strumento di buon governo dei problemi, si è rivelato semplicemente assenza: di discussione, ma anche di analisi e soluzioni.

Che fine ha fatto, ad esempio, la questione della modifica della legge sulla cittadinanza? Che fine ha fatto lo Ius Culturae, che con tutti i suoi limiti sarebbe stato comunque un avanzamento per le migliaia di giovani nati in Italia, o arrivati entro i dodici anni di età, per vedersi riconosciuta una cittadinanza che, al di là delle norme, è un dato di fatto? Un disegno di legge che risale al lontano 2015, approvato alla Camera ma mai giunto al Senato. Una battaglia, tra l’altro, di una componente importante di quella che era diventata la nuova maggioranza parlamentare. Ma rimasta ferma lo stesso. Unico intervento, alquanto risibile, è stato quello di riabbassare il termine massimo per la conclusione delle pratiche di cittadinanza: dai 4 anni introdotti dal decreto Salvini, invece dei due previsti sino ai Decreti, ai 3 del decreto Lamorgese. Ma senza effetto retroattivo, per cui chi aveva la pratica aperta nel periodo tra i due decreti dovrà aspettare sempre 4 anni. O, meglio, almeno 4 anni: perché in Italia i termini perentori per le procedure amministrative hanno la stessa efficacia del divieto di evadere le tasse.

È convenuto, dunque, il silenzio? Certamente no; in base ai sondaggi, la metà degli italiani è ancora favorevole addirittura allo Ius Soli (e i contrari sono di meno, il 35%), ossia alla cittadinanza a chi è nato in Italia. Dunque un dibattito, anche acceso, sarebbe meglio di un’assenza di dibattito. Che fine ha fatto il dibattito sulla riforma della Convenzione di Dublino? Anche qui, per lungo tempo, è sembrato che se uno era disoccupato, oppure era stato vittima di mala sanità, o semplicemente gli si era rotto un rubinetto dell’acqua, la colpa fosse della Convenzione di Dublino. L’accordo europeo, in sintesi, per cui una persona che vuole chiedere asilo in Europa deve farlo nel primo Paese di arrivo. Andava riformata, per altri andava abolita. Per alcuni era addirittura il principale motivo per voler uscire dall’UE. Dopodiché, di nuovo, il silenzio. Ne parla (fumosamente) la Von der Leyen, ma qui da noi nessuno più. Persino Salvini ora dice che sulle migrazioni dobbiamo seguire le regole europee. Intende che gli vanno bene queste o che vanno cambiate? Non è dato saperlo. Sarebbe importante sapere la posizione italiana su questo tema. Temo che dovremo aspettare la prossima campagna elettorale.

Che fine hanno fatto i Ritorni Volontari Assistiti? Tema alquanto misconosciuto, ma importante. Anni di politiche insensate, che hanno posto ostacoli di ogni tipo alla regolarizzazione dei migranti in Italia, hanno creato un numero significativo di soggetti in condizioni di estrema difficoltà e vulnerabilità. I cosiddetti “irregolari” sono stati il punto centrale del dibattito per molto tempo. Ovviamente, le promesse del tipo “ne espelleremo 500.000” si sono rivelate per quelle che erano: una boutade. E meno male. Pochi sanno, però, che ci sono moltissime persone che, effettivamente, se potessero tornerebbero volentieri a casa. Solo che non sanno come fare. Per questo esistono i Ritorni Volontari Assistiti (RVA). In Italia se ne facevano pochi, e si poteva pensare fosse per un difetto di richieste. Un progetto sperimentale, promosso dal Ministero dell’Interno nel 2017, che prevedeva semplicemente più informazione sui territori e consulenze dirette ai richiedenti, ha ottenuto risultati notevoli, con una vera esplosione delle richieste. Neanche a dirlo, in Italia le sperimentazioni si avviano, ma, se funzionano, si chiudono subito. Così è andata, ed i numeri sono di nuovo crollati. Oltre al danno, la beffa: sono anche diminuiti i Paesi nei quali si può fare ritorno, e sono stati tagliati fuori proprio i soggetti più vulnerabili e bisognosi, come i richiedenti affetti da patologie gravi. Oltre ad essere una soluzione di ritorno estremamente più etica e sostenibile, i RVA sono paradossalmente anche meno costosi per lo Stato rispetto ai ritorni forzati, costando fino ad un quarto in meno (fonte ANCI). In più, garantendo un sostegno per la reintegrazione del beneficiario nel Paese di ritorno, si contribuisce allo sviluppo di quel Paese. Il famoso “aiutiamoli a casa loro” di cui tanti parlano a vanvera. L’uovo di colombo, dunque. La stessa UE, che finanzia in gran parte i RVA, nel suo “Piano d’Azione sul rimpatrio” del 2015 sottolineava che il ritorno volontario sarebbe dovuto rimanere l’opzione preferita, in quanto più conveniente del rimpatrio forzato nel rapporto costi-benefici. Perché, allora, depotenziare questo strumento? Qual è la ratio? Se ne può discutere? Pare di no.

Sono solo alcuni esempi. Ci sarebbe da discutere su una riforma della normativa sull’asilo, dello stato del sistema di accoglienza, del diritto di voto, almeno a livello locale. Tutte questioni che, nel silenzio, sono state seppellite. Questioni serie, che non possono essere affrontate (o, peggio, urlate) solo in campagna elettorale. Dobbiamo aspettare un governo di destra per tornare a parlarne? Il Presidente Draghi che ne pensa?

Nel suo primo discorso al Senato, in neo Presidente del Consiglio ha fatto solo due brevissimi accenni. Il primo, al nuovo Patto europeo per le migrazioni e l’asilo, tenendosi sul generico discorso di una maggiore solidarietà tra i partner europei.
Il secondo, sui rimpatri (sottointesi forzati, non volontari). D’altronde c’è la Lega al governo. Ma con un riferimento al “pieno rispetto dei diritti dei rifugiati” che è apprezzabile, anche perché non scontato in questo periodo storico. Per ora molto poco, e, almeno in un caso, in direzione sbagliata. Ma può essere un inizio. Vedremo.

Non possiamo, però, aspettare i tempi e le paure della politica. Dobbiamo ricominciare a discutere di temi e di proposte. Anche, di nuovo, accanitamente. Riattivare l’opinione pubblica: quasi mi mancano gli insulti che venivano scambiati mesi fa. Almeno, se ne parlava. A questo punto, meglio un sano fracasso del silenzio.


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