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Franco Cassano: «Guardatevi dalla banalità del bene»

Conosciuto per i suoi studi sul "pensiero meridiano", si è spento oggi a 78 anni il sociologo Franco Cassano. Nel 2011, aveva pubblicato un libro molto importante sui dilemmi e le trappole della solidarietà. «Il male è umile, il bene sempre più si specchia e si compiace di sé», spiegava, «lasciando spazio agli operatori del cinismo». Un'intervista con lui, per ricordarlo

di Marco Dotti

«Nell'eterna partita contro il bene, il male parte sempre in vantaggio grazie all'antica confidenza con la fragilità dell'uomo». Franco Cassano, sociologo barese, celebre per aver coniato la categoria del pensiero meridiano, scomparso oggi all'età di 78 anni, la vedeva così questa eterna partita: «chi vuole annullare quel vantaggio deve riconoscersi in quella debolezza, invece di presidiare cattedre morali sempre più inascoltate». Una profezia venata di realismo che, in questa intervista che ci concesse nel 2011, a margine del dibattito suscitato dal suo libro L'umiltà del male, edito da Laterza, si concludeva così: «Senza un'élite competente e coraggiosa la politica muore. Ma questa spinta morale deve sapersi confrontare con la maggioranza degli uomini, misurarsi con la loro imperfezione, deve diventare politica».

Bisogna amare il mondo. Quel mondo che Pasolini, citando Pound, vedeva fiorire nel suo «volgar’ eloquio»: quello che «sorge dal profondo dei meriggi, tra siepi asciutte, nei Mercati — nei Fori Boari — nelle Stazioni — tra Fienili e Chiese — Poi si Spegne — e col sospiro d’un universo erboso — si riaccenderà verso la fine dei crepuscoli»… Potremmo dire che il mondo difetta di questo ascolto e di questo amore, perché ad ascoltarlo e a sedurlo sono soni rimasti solo gli inquisitori. Ombre del Grande Inquisitore di cui parlava Dostoevskij in un celebre passaggio dei Karamazov? Chi è “l’altro” per l’Inquisitore?
Il nostro è un tempo difficile, dominato dalla paura, la passione che divide gli uomini, che li spinge a chiudere le porte, a guardare l’altro come un pericolo. È un tempo in cui ci si salva da soli, e spesso contro gli altri, in cui il male trova grande spazio e si diffonde rapidamente proprio perché le disuguaglianze aumentano, i più deboli sono divisi e quindi facilmente soggiogabili. Il Grande Inquisitore, una delle figure-chiave del libro di Dostoevskij, al centro anche del mio l’Umiltà del male, edifica il proprio potere usando a proprio vantaggio la grande conoscenza delle debolezze degli uomini. Egli aiuta e protegge, ma solo alla condizione che si rimanga in eterno fanciulli, dipendenti da lui. Del resto, come Levi ci mostra con straordinaria lucidità ne I sommersi e i salvati, anche nel Lager, dove non esiste nessuna possibilità di resistenza, il potere corrompe, costruisce una “zona grigia”, coinvolge, in cambio della concessione di piccoli privilegi, le sue vittime nella gestione dell’orrore. La paura è il contrario della speranza, la passione capace di allargare il mondo, di spingere i deboli a mettersi insieme. Laddove la speranza scompare e il mondo diventa più stretto, gli uomini si dividono, cercano soluzioni da soli e spesso gli uni contro gli altri. È allora che l’ombra del Grande Inquisitore si allarga e si allunga.

Chi è il Grande Inquisitore, oggi? Soprattutto: che idea ha dell’uomo?
Nella Siviglia del Cinquecento, quella di cui parla l’Ivan Karamazov di Dostoevskij, gli strumenti del Grande Inquisitore erano il miracolo, il misteroe l’autorità: la superstizione, l’ignoranza e la subordinazione cieca e rassegnata, che facevano dell’uomo un fanciullo bisognoso di un’eterna ed interessata tutela. Anche oggi il Grande Inquisitore continua a valersi dell’ingenuità dell’uomo per soggiogarlo, ma ha “modernizzato” i suoi strumenti: oggi la passività ha un’altra forma, più sofisticata e nascosta dietro l’apparenza dell’autonomia.

Il narcisismo etico è quell’atteggiamento che spinge i migliori a specchiarsi nella propria presunzione, a non accorgersi dell’abilità con cui il male riesce ad egemonizzare la debolezza, che non permette loro di vedere il punto cieco delle loro qualità. La debolezza infatti è la condizione comune degli uomini, l’unica base di una possibile fraternità, e non può essere rimossa

Franco Cassano

Le leve del nuovo potere sono l’ossessione del consumo e della distinzione, la rivendicazione della volgarità come sincerità, la celebrità sganciata da ogni merito e legata all’esposizione impudica del sé, un individualismo che ha perso per strada il tratto più nobile dell’individuo, il senso di responsabilità verso gli altri, una sorta di narcisismo amorale insofferente nei riguardi di ogni regola. Il Grande Inquisitore oggi non è più il vecchio chierico devoto, ma il piazzista che, dietro il sorriso di velluto che ci arriva da tutti gli schermi, nasconde il pugno di ferro del suo potere personale, che seduce ed acquista beni e persone. E qualche anima smarrita, oggi come allora, si spinge fino al punto di ringraziare il cielo per la sua esistenza.

Nella premessa alla riedizione [III ed., 2010] del Pensiero meridiano, di fronte a critiche e soprattutto, credo — indebite appropriazioni, Lei osservava che a condurla verso un certo ambito (sbrigativamente definibile come “identità”) era stato proprio il cono d’ombra costante attraverso cui l’altro e questa identità si presentano all’Occidente… Possiamo legare a questo “transito” anche il suo ultimo libro, L’umiltà del male? È sempre di zone d’ombra che si tratta, di fragilità e debolezze inascoltate…
Lei coglie giustamente una linea di continuità nel mio lavoro. Nel 1996 Il pensiero meridiano prendeva di mira l’arroganza dei vincitori, la stolida convinzione, a suo tempo predicata tra gli altri da Fukuyama, che la storia fosse finita e che tutto il mondo dovesse divenire come l’Occidente liberale ed avanzato.

La mossa teorica del pensiero meridiano era in primo luogo una critica di questa chiusura del discorso, di cui del resto il corso stesso della storia ha fatto ben presto giustizia. Il mondo ha tanti versi e il sud non è solo arretratezza, un ritardo da colmare, ma un luogo che ha anche molto da insegnare. Molti hanno scambiato questa scelta come una rivendicazione nostalgica di identità o come l’apologia del sud realmente esistente.

Ma il pensiero meridiano era ed è un’altra cosa, una rivendicazione di autonomia teorica, l’uscita da una condizione di passività e di minorità, l’appello ad un sud capace di pensarsi da sé e di proiettarsi nel futuro, non una rivendicazione provinciale, ma la convinzione di poter dire cose importanti per tutti. Oggi è tornata di moda la parola “terroni”, ma per me il sud, e in particolare quello italiano e mediterraneo, è sempre stato terra e mare, identità e libertà. L’inquietudine della filosofia e quella della città sono nate a sud, in primo luogo in Grecia. Il sud del pensiero meridiano parla del confine, della frontiera, dell’altro, è esattamente il contrario della rivendicazione di un’identità chiusa, vive di contraddizioni e di ossimori. Questa figura retorica è da sempre presente nel mio lavoro, e l’Umiltà del male ne costituisce un ulteriore passaggio.

L’etica è necessaria, ma non sufficiente: la politica senza etica è manipolazione, privilegio, potere, ma l’etica senza politica è una salvezza separata dal mondo reale e dalla maggioranza degli uomini. La salvezza a cui penso deve essere la salvezza dei molti, avere il passo pesante della fanteria. Le altre non mi interessano

Franco Cassano

Che fare, quindi?
Il Grande Inquisitore rimprovera a Cristo di aver predicato una concezione troppo alta della fede, accessibile solo a dodicimila santi per ogni generazione e dichiara orgogliosamente di aver preferito ad essi tutti gli altri uomini, quelli che non posseggono la forza per affrontare i digiuni e i deserti. Ma questa confidenza con la debolezza è diabolica, perché nasce non da una forma di umanità, ma dalla passione per il potere.

Un narcisismo etico…
Direi che il narcisismo etico è quell’atteggiamento che spinge i migliori a specchiarsi nella propria presunzione, a non accorgersi dell’abilità con cui il male riesce ad egemonizzare la debolezza, che non permette loro di vedere il punto cieco delle loro qualità. La debolezza infatti è la condizione comune degli uomini, l’unica base di una possibile fraternità, e non può essere rimossa. Non ci si salva da soli né in dodicimila. Ecco perché la politica, la politica democratica, è una sfida all’etica, la richiesta ad essa di essere coerente, di andare fino in fondo, di misurarsi con la maggioranza degli uomini.

L’etica è necessaria, ma non sufficiente: la politica senza etica è manipolazione, privilegio, potere, ma l’etica senza politica è una salvezza separata dal mondo reale e dalla maggioranza degli uomini. La salvezza a cui penso deve essere la salvezza dei molti, avere il passo pesante della fanteria. Le altre non mi interessano.


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